3rd  EYE - il forum italiano sui TOOL e gli A Perfect Circle

Posts written by barionu

  1. .
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    QUI MOLTE NOTIZIE E MAPPE ....


    www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&...jri1NjY#p565901



    E IMMAGINI



    www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&t=21315
  2. .















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    CERTOSA DI BOLOGNA

    L' INGRESSO AI SOTTERRANEI SEGRETI ,

    IN USO AI MASSONI NEL 1800 ....






    MASSONI IN CERTOSA


    www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&t=18394



    LE MAPPE

    www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&t=19912


    https://originidellereligioni.forumfree.it/?t=76494668






  3. .


    QUI TROVATE LO STUDIO COMPLETO .


    www.ufoforum.it/viewtopic.php?f=45&t=21179



    zio ot

    Edited by barionu - 13/10/2022, 10:07
  4. .
    Tra breve riprendo lo studio .....


    zio ot
  5. .
    Lo scrittore Angelo Cerchi , autore del libro




    HP%20Lovecraft%20il%20Culto%20Segreto%20by%20Aradia%20Edizioni


    www.aradia-edizioni.it/hp_lovecraft-culto-segreto.html


    mi suggerisce un ' indagine nel celebre racconto di Lovecraft

    https://it.wikipedia.org/wiki/Il_richiamo_di_Cthulhu

    Infatti il sintagma formula




    Ph ' nglui mglw nafh

    Cthulhu R' lyeh wgah' nagl fhtagn



    ha tutte le caratteristiche del semitico .


    E Angelo Cerchi mi ha offerto anche una Chiave d' Argento per decriptare la formula



    UNA SCULTURA CHE RAPPRESENTA CTHULHU







    la precisa indicazione di Angelo Cerchi è che CTHTLHU sia legato a unì esecuzione capitale , a un supplizio .



    PRE DECRIPTARE CTHLHU

    è importante capire quali lettere siano le portanti , ovvero in Ebraico le RADICALI , le lettere che

    costituiscono l' scheletro, l' ossatura del vocabolo

    e individuare prefissi e suffissi .


    Infatti C STA PER


    כְּ


    K(E) in ebraico : come , complemento di modo


    e le radicali T L H

    IN EBRAICO TAW LAMED HE


    ת ל ה


    formano il verbo , forma infinito , LITLOT

    לִתְלוֺת



    con il significato di sospendere , appendere .


    appendere cosa ????????


    Dobbiamo quindi dare un' occhiata ai verbi in Ebraico ...

    da

    www.biblistica.it/wordpress/?page_id=261



    Forme

    Valore

    1a

    qal

    Semplice

    2a

    nifàl

    Riflessivo o passivo

    3a

    pièl

    Intensivo attivo

    4a

    puàl

    Intensivo passivo

    5a

    hifìl

    Causativo attivo

    6a

    hofàl

    Causativo passivo

    7a

    hitpaèl

    Riflessivo intensivo



    Qui, per un esempio, prendiamo il paradigma il verbo קטל (qatàl):

    Forme

    Valore

    Traduzione

    1a

    קטל (qatàl)

    Semplice (qal, קל)

    Uccise

    2a

    niqtàl (נקטל)

    Riflessivo o passivo

    Si uccise, fu ucciso

    3a

    qittèl (קטל)

    Intensivo attivo

    Uccise violentemente, massacrò

    4a

    quttàl (קטל)

    Intensivo passivo

    Fu ucciso violentemente, fu massacrato

    5a

    hiqtìl (הקטיל)

    Causativo attivo

    Fece uccidere

    6a

    hoqtàl (הקטל)

    Causativo passivo

    Fu fatto uccidere

    7a

    hithqattèl (התקטל)

    Riflessivo intensivo

    Si uccise violentemente

    Così, ad esempio, hiqtìl (הקטיל) significa “fece uccidere”, e la sua forma si chiama hifìl.



    In italiano esistono i tempi del verbo (presente, passato e futuro); in ebraico invece conta l’aspetto verbale ovvero la condizione dell’azione, che può essere completa o incompleta. “Il tempo com’è inteso in quasi tutte le lingue moderne non è lo stesso per la mentalità semitica. La cognizione del tempo di un’azione non è d’importanza capitale secondo la mentalità ebraica. Per una mente indogermanica è indispensabile collocare l’azione nella sua accentuatissima valutazione temporale. La condizione dell’azione intesa nella sua completezza o incompletezza era in genere sufficiente per i semiti e, in caso contrario, qualche termine dal significato temporale o storico avrebbe messo a fuoco il tempo”. – K. Yates, The Essentials of Biblical Hebrew, 1954, pag. 129.

    Il perfetto esprime di per sé un’azione completa. In Gn 3:23, nella frase: “Dio il Signore mandò via l’uomo dal giardino d’Eden”, il verbo è al perfetto, indicando un’azione compiuta ovvero finita. Se l’azione non è termitata ovvero è incolpleta, il verbo ebraico è all’imperfetto. Così, in Gn 1:2, dove è detto che lo spirito di Dio “aleggiava sulla superficie delle acque”, il verbo è all’imperfetto, indicando che l’azione non era terminata. Siccome in ebraico la forma perfetta o compiuta è la sola che riguarda il passato, in essa sono comprese tutte le sfumature dei nostri tempi (passato e trapassato prossimo, passato e trapassato remoto). Nella frase “in principio Dio בָּרָא [barà] i cieli e la terra” (Gn 1:1), il verbo בָּרָא (barà) è al perfetto (azione terminata, completata) e può essere tradotto con l’italiano “ha creato”, “aveva creato”, “creò”, “ebbe creato”. Come si fa a tradurre con il giusto senso? Ovviamente tenendo conto del contesto. In questo caso la traduzione giusta è “aveva creato”, perché al v. 2, subito dopo, è detto che la terra הָיְתָה (haytàh; tempo perfetto), “divenne” informa e vuota. Ora, siccome Is 45:18 afferma che Dio non creò la terra così, è ovvio che ci si riferisce a due momenti diversi: Dio aveva creato la terra e poi la terra divenne informa e vuota. Sbaglia quindi NR che traduce: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota”, dando l’idea che Dio l’avesse creata così. Sbaglia parzialmente TNM che traduce: “In principio Dio creò i cieli e la terra. Ora la terra risultò essere informe e vuota”, in modo equivoco, non distinguendo bene i passaggi: stato della creazione iniziale e stato successivo.

    In ebraico il tempo perfetto indica, come detto, un’azione compiuta; ciò però può essere riferito a qualsiasi periodo di tempo: passato, presente o futuro. Per l’imperfetto è la stessa cosa, indicando un’azione incopleta che può riguardare qualsiasi periodo di tempo.

    Aggiungendo alla forma del perfetto (detta qal), espressa alla terza persona, i suffissi corrispondenti alle altre persone (numero e genere), si ottiene la flessione del perfetto. La flessione dell’imperfetto si ottiene invece con prefissi anteposti all’infinito costrutto qal.


    Diamo quindi un' occhiata al verbo litlot nelle varire coniugazioni ebraiche ( bynyanym )

    la cosa importante è capire che se la forma semplice vale come appendere

    la forma intensiva vale come giustiziare


    Pa'al ( qal ) forma semplice : essi appesero

    תָּלוּ talù


    ______________________________________________________

    Nif'al passivo della forma semplie : essi furono appesi

    נִתְלוּ nitlù


    ______________________________________________________

    Pi'el : intensivo attivo : essi giustiziarono

    תִּלּוּ tillù


    ______________________________________________________

    Pu'al : intensivo passivo : essi furono suppliziati

    תֻּלּוּ
    tullù


    ______________________________________________________

    Hif'il : causativa attiva : essi fecero appendere

    הִתְלוּ hitlù


    ______________________________________________________

    Huf'al :causativo passino : essi furono fatti appendere

    הָתְלוּ



    Non c’è Hitpa'el e non è possibile fare ipotesi in quanto con prima tav non c’è nessun verbo in terza sezione in questo binian.

    Mettendo insieme tutto il know_how l’estrema ratio potrebbe essere





    הִתַּלוּ
    hittlù

    essi si fecero giustiziare



    Facendo altre ricerche ho trovato


    : https://milog.co.il/התלו




    QUINDI

    Pu'al : intensivo passivo : essi furono suppliziati

    תֻּלּוּ tullù



    ora dobbiamo dare un' occhiata allo scewà , ovvero la consonante priva di vocale





    LEZIONE 1



    שְׁוָא

    Lo shewà ( mancanza di vocale per la consonante )


    Hallora, tutti voi sapete la storiella che in Ebraico non si scrivono le vocali , ma solo le consonanti .

    Le vocali sono espresse da un vasto corpus di segni diacritici , e tra questi un segno si chiama shewà

    ed esprime la mancanza di vocale, il suono consonantico è SOLO.

    Disgrazia vuole che lo scewà sia di 3 tipi

    lo scewà nàch ( quiescente )

    lo scewà merachèf ( sorvolante )

    lo scewà nà ( mobile )



    tutti gli scewà sono espressi da 2 puntini sotto la lettera : in questo caso una tzady : צְ

    passiamo agli esempi pratici .


    שְׁוָא נָח
    shewà nach ( quiescente )

    come nel caso della vocalizzazione moderna di Nazareth ( prima attestazione del 7 secolo , poesia sinagogagale di Qalir )


    נַצְרַת
    Nàtzrat


    in questo caso lo scewà sotto la tzady porta a : Nàtzrat .


    שְׁוָא מְרַחֵף
    scewà merachèf ( sorvolante )

    è uno scewà che viene usato per le forme costrutte , e ( per fortuna ) l' effetto è come lo scewà nach : mancanza di

    suono vocalico . ad es la forma costrutta ( complemento di specificazione , genitivo ) di melekh : re

    se devo fare il plurale ed esprimere : dei re

    מַלְכֵי
    malkhè



    ma le cose cambiano con lo scewà nà ... :alienff:


    שְׁוָא נָע
    scewà nà ( mobile )

    infatti in questo caso abbiamo la consonante con una e acclusa ,

    ad es se devo fare il plurale di bambine , è yeladym


    יְלָדִים


    ovvero la yod iniziale si pronuncia con una e acclusa : ye .


    Hora, ci sono regole grammaticale molto complesse che regolano l' uso dei 3 scewà ,

    e delizia vuole che i grammatici Ebrei madrelingua , i Rabbym , non siano per niente d' accordo

    su queste regole ... la lana caprina al confronto è acqua fresca ...

    Ma per iniziare considero la LEZIONE 1 , conclusa .


    Dateci 5 -10 occhiate , per l' analisi dei primi capitoli del Zolli è molto importante .



    Sono ammesse domande .


    zio ot :B):

    ps su fb mi suggeriscono :

    https://it.m.wikipedia.org/wiki/Schwa


    _________________________________
  6. .

    the-overlook-hotel-il-produttore-james-vanderbilt-parla-del-prequel-di-shining-2








    IL CASO DEXTER WARD









    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA


    IN PDF :


    http://streptos-music.noblogs.org/gallery/...xter%20Ward.pdf








    YOG SOTHOTH


    http://it.wikipedia.org/wiki/Yog-Sothoth

    E' il nome di un' entità che compare spesso nei racconti di Lovecraft.

    Qui non bisogna neanche faticare per capirne l' origine ( filologica ) semitica.


    In Ebraico la Yod י ha valore 10.

    E la Ghimel ג ha valore 3

    quindi , in Ebraico , Yag יָג

    ha significato di 13


    SOTHOTH


    In Ebraico abbiamo un sostantivo che al femminile si presenta come SOTA'H

    סוֹטָה


    che vuol dire depravazione, deviazione ; Ben Yeuda dice anche riferitosi a moglie in sospetto di adulterio ( pag 218 del Ben Yeuda piccolo Inglese/Ebraico )

    e al plurale femminile diventa Sotot

    סוֹטוֹת

    YAG SOTOT

    יָג סוֹטוֹת


    13 depravazioni.

    Tredicesima Depravazione possibile traduzione in Italiano.

    Sicuramente Lovecraft lo sapeva.





    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""





    Il caso di Charles Dexter Ward , scritto nel 1927/8


    Nella formula per evocare Yog Sothoth

    ' NGAH'NG AI'Y ZHRO


    dove ZHRO

    è ZIKHRO' forma costrutta di Zikharon Shelò : vuol dire

    sua memoria.

    Ed è presente in una espressione aramaica precisa

    Jamàh sh(e)mò wezikrò :

    Sia cancellato il suo nome e la sua memoria.

    A chi stava alludendo Lovecraft ?



    Tutti i nomi di Gesù


    Yehoshùa

    יְהוֹשֻׁעַ

    Yeshùa

    יֵשׁוּעַ

    Yeshù

    יֵשׁוּ


    Che sarebbe in realtà l' acronimo di


    ימח שמו וזיכרו


    Tento una possibile vocalizzazione

    Yamàh Shemò Wezikhrò


    יַמָח שֵׁמוֹ וְזִיכְרוֹ


    Oppure

    Yamàh Shemò Wezikkarò


    יַמָח שֵׁמוֹ וֹזִיכָּרוֹ



    Cancellate il suo nome e la sua memoria

    E' la forma costrutta da :

    Yamah shem shellò wezikkaròn shellò


    יַמָח שֵׁמ שֶׁלּוֹ וְזִיכָּוֹך שֶׁלּוֹ

    Ovvero :

    שֵׁמ shem : nome


    וְ : we ( la congiunzione )


    זִיכָּרוֹך zikkaròn : memoria

    שֶׁלּוֹ shellò : il suo ( maschile )




    יְהוֹשֻׁעַ Yehoshùa nel Tanakh


    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%A2%D6%B7&s=ft




    יֵשׁוּעַ Yeshùa nel Tanakh


    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%A2%D6%B7&s=ft




    יֵשׁוּ Yeshu nel Tanakh : Non presente !

    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%95%D6%BC&s=ft




    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    'NGAH'NG


    l' APOSTROFO potrebbe valere come omissione fonetica , in questo caso opto per una gutturale ,

    e trovo subito una corrispondenza con la ain

    ע



    quindi

    ain, nun , ghimel ,he ----- ain , nun , ghimel


    ענגה ענג

    la cosa interessante è la presenza di AH , ovvero del suffisso femminile .

    mentre con un ' altra vocale , la O ,e la U che in Ebraico ANTICO , per la parola che ipotizzo, non si scrivono

    salta fuori una definizione precisa : anog , anugah,

    che significa delizia, soave .

    vocalizzato :


    ANOG - maschile

    עָנֺג

    ANUGAH -femminile

    עֲנֻגָה




    quindi riassumo :



    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO


    יָג סוֹטוֹת YAG SOTOT

    עֲנֻגָה ANUGAH

    עָנֺג

    ANOG

    הָיָה HAYAH

    זִיכָּרוֹ ZIKKARO'





    YAG SOTOT ANUGAH ANOG HAYAH ZIKKARO'


    tredicesima depravazione delizia fu sua memoria .


    Lovecraft sta citando un testo preciso .





    zio ot hypocrite1

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO


    Analizzo ora questa frase


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    Per criptare Lovecraft utilizza una forma molto semplice : l' anagramma con zeppe e scarti


    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""




    EE'H : lo identifico nell' imperativo del verbo essero

    SII ( TU DEVI ESSERE )

    הֱיֵה HEYEH

    In Ebraico, ricordo, il verbo essere esiste, ma è quasi sempre sottinteso



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    GEB'L : lo identifico con

    GEVUL : limite , CONFINE


    גְּבוּל



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    HROD AI'F : notare le due sillabe separate , indice di una mancaza , il segno ' ,

    che potrebbe indicare una forma di elisione


    H è chiaramente un articolo

    ha : il. la

    הַ



    ROD AI'F' : lo identifico in RODEF : avido, avidità

    רוֹדֵף

    che con il pronome tue

    delle tue avidità ( rivolto al femminile )

    è RODEF SHELLAKH


    רוֹדֵף שֶׁלָּך


    diventa HARODEFAIKH nella forma costrutta ( semikhut )



    הַרוֹדֵפַיׅך


    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    OGT


    GT : GAT : TORCHIO

    גַּת

    : IL SUO TORCHIO

    SAREBBE GAT SHELLO'


    גַּת שֶׁלּוֹ


    che nella forma costrutta diventa GATTO'

    גַּתּוֹ

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Riepilogo :


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    IN EBRAICO

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה



    TRASLITTERAZIONE DELLA TRADUZIONE

    gattò harodefaikh gevul heyeh

    TRADUZIONE

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""
    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Riepilogo completo


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    Decriptazione in ebraico :

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה

    יָג סוֹטוֹת עֲנֻגָה עָנֺג הָיָה זִיכָּרוֹ


    traslitterazione


    gattò harodefàikh gevùl heyèh

    yag sotòt anugàh anòg hayàh zikkarò



    traduzione

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità

    tredicesima depravazione delizia fu sua memoria .



    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""


    Alcune considerazione e note :

    la corrispondeza con il testo , è , a mio avviso , altamente probabile .

    Ho provato a pronunciare a voce alta la formula

    e l' effetto è impressionante .


    Infatti , per rispetto al popolo della Torah che mi ospita , e per

    ragioni che gli studiosi della Qabbalah possono capire ,

    non ho scritto la formula nella successione di parole

    che ritengo Archetipa .




    La HET sia una barriera invalicabile



    ח





    דוד אות

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""



    Alcuni tocchi di lima ....


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    Decriptazione in ebraico :

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה

    יָג סוֹטוֹת עֲנֻגָה עָנֺג הָיָה זִיכָּרוֹ


    traslitterazione


    gattò harodefàikh gevùl heyèh

    yag sotòt anugàh anòg hayàh zikkarò



    traduzione

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità

    tredicesima depravazione delizia fu sua memoria .



    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    in RODEF : avido, avidità

    רוֹדֵף

    in pratica avidità è più propriamente taanah

    תַּאֲוָה


    mentre Yag sotot è un plurale : 13 depravazioni

    יָג סוֹטוֹת


    per cui :


    sii il suo torchio , confine delle tue avide

    13 depravazioni delizia fu sua memoria


    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Chiaramente non dobbiamo aspettarci una grammatica perfetta in una formula evocativa poetica ,

    e il senso compiuto apparirà dopo che posto la decriptazione della 1 parte ( ci sto lavorando ) ....



    zio ot :B):

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""


    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA
  7. .
    Intanto , gli studi continuano ,

    un po' di mesi fa ho acquisito un testo rarissimo

    di Gaetano Giordani

    " CRONACA DELLA CORONAZIONE DI CARLO V IMPERATORE "

    http://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Giordani


    Riguardo al possibile incontro tra Giulio Camillo Delminio e Agrippa di Nettesheim

    in quei giorni a Bologna .


    E PROPRIO QUESTA MATTINA UN COLPO ECCEZIONALE !!!!!


    Ho potuto vedere l' ingresso di un tunnel sotterraneo :

    dal mio scritto che pubblicherò :


    Stavo infatti seguendo una traccia: in un testo alchemico che sono riuscito a
    sottrarre
    da una collezione privata, si racconta di una leggenda bolognese,
    su come un Ordine Segreto si riunisse in un palazzo dell’attuale Via
    Galliera,
    per poi percorrere un tunnel sotterraneo che portava direttamente
    alla Certosa Monumentale.

    Questa mattina sono riuscito ad accertarne l' esistenza


    Nessun dubbio di come la psicometria mi abbia guidato ,

    non dovevo recarmi in quella zona di Bologna , e il fatto che la botola fosse aperta non solo un avvenimento raro , ma il fatto che i 2 tecnici del gas che stavano entrando si siano sbottonati , descrivendo un sistema di tunnel lungo svariati kilometri .


    Il sistema risale ad epoca antica , gli operai , visto che mi sono presentato come archeologo , mi hanno descritto gli archi a sesto acuto tipici degli anni dal 1300 al 1500 .



    zio ot :B):
  8. .
    CITAZIONE (josef k. @ 7/1/2014, 09:37) 
    CITAZIONE (barionu @ 13/10/2013, 23:13) 
    In questo topic

    www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=178&whichpage=22

    trovate non solo le analogie, ma i prestiti e gli autentici furti che il Cristianesimo a perpetrato

    dal Mithraismo

    almeno la grammatica, quando si parla di certi argomenti, bisognerebbe conoscerla, per risultare credibili.

    beh ,,,,il refuso è evidente , ma mi interesserebbe un tuo intervento su tutto il resto


    zio ot :B):
  9. .
    In questo topic

    www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=178&whichpage=22

    trovate non solo le analogie, ma i prestiti e gli autentici furti che il Cristianesimo ha perpetrato

    dal Mithraismo


    la chiavi di San Pietro



    pietro



    201172921560_009

    20118541011_A2

    Si tratta del CIMRM 551 VOLUME 1 pag 215

    Altezza cm 79 , base cm 20

    Vermaseren , su ogni pezzo , da una grande quantità di notizie che rimandano ad altri testi , per cui cercherò di fare una sintesi :

    nel 1800 il pezzo era a Roma , nei giardini della famiglia Muti , vicino Villa Ludovisi , e nel 1956 era al Museo del Laterano, numero di inventario 318A.

    E' inserito in una sezione del Volume 1 che Vermaseren titola " Monumenti fabbricati a Roma e preservati a Roma "

    Non da indicazioni specifiche del periodo , ma in questa sezione lui parla
    genericamente del II secolo.

    Oggi al Museo Profano Gregoriano del Vaticano , ma mi sa che l' hanno nascosto nei magazzini ....




    Un altro Aion , oggi ai Musei Vaticani , entrata della Biblioteca


    bellisssssima foto !



    VERMASEREN CIMRM 545 VOLUME I



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    in origine senza foglia di fico sul pisello ...


    satrntim


    ricostruzione moderna ( penosa ... )

    AE


    un link interessante

    www.fondazionemarcobesso.it/nuovobesso/borgo/laura_gigli.htm


    zio ot :B):[/IMG]

    Edited by barionu - 21/3/2014, 13:05
  10. .
    EDIT REIMPOSTATO .









    Salvo questo ottimo studio , di cui non conosciamo l' autore .


    http://episophia.files.wordpress.com/2012/...galilee_nxs.pdf




    MITRAISMO E CRISTIANESIMO

    LA COSPIRAZIONE PIU’ DI SUCCESSO DELL’INTERA STORIA UMANA






    Vicisti Galilee!


    Una ben nota tradizione cristiana narra che l’imperatore Giuliano, colpito da una lancia persiana
    e sbalzato a terra dalla groppa del suo cavallo, prima di esalare l’ultimo respiro sollevò una mano al
    cielo in un gesto di rabbia e di sfida, gridando: “Vicisti Galilee!”.


    Si tratta di una tradizione fantasiosa, che non ha nulla a che vedere con i fatti come si sono
    realmente svolti, creata da un cristianesimo che voleva accreditare l’immagine di un imperatore
    impegnato in una titanica lotta contro Cristo, il “Galileo”, uscendone alla fine sconfitto. Una
    tradizione fantasiosa creata per supportare un’immagine storicamente infondata. Ed anche il
    concetto che questa immagine vuole trasmettere, e cioè che gli ideali per cui Giuliano si era
    adoperato e battuto nel corso del suo breve regno fossero usciti definitivamente sconfitti, è tutt’altro
    che sostenibile. Meno di trent’anni dopo, infatti, quegli ideali trovarono pratica attuazione per opera
    dello stesso cristianesimo trionfante.



    Giuliano è passato alla storia con l’epiteto di “Apostata”, non del tutto appropriato, in quanto
    egli non era mai stato battezzato, anche se possedeva una conoscenza molto approfondita della
    religione cristiana, al punto da discutere con cognizione di causa sulle sue incongruenze, citando a
    memoria lunghi passi della Bibbia. Le sue critiche al cristianesimo, però, erano puramente
    filosofiche e dottrinali; egli non perseguitò mai la Chiesa, ed anzi proibì espressamente e condannò
    con fermezza ogni forma di violenza contro i cristiani.



    Gli storici moderni lo hanno definito l’ultimo imperatore “pagano”, per gli sforzi che profuse
    nel rivitalizzare e moralizzare i più noti culti pagani dell’antichità. Ma questo non gli impedì di far
    completare la chiesa di Santa Costanza, a Roma, per farvi seppellire la propria moglie Elena, e di
    essere sepolto lui stesso nella basilica dei dodici Apostoli, a Costantinopoli. Né gli impedì di
    ordinare la ricostruzione del tempio ebraico di Gerusalemme (i lavori, in effetti, furono iniziati, ma
    interrotti subito dopo, a quanto si dice a causa di un terremoto).



    In realtà Giuliano non era né cristiano, né propriamente pagano; era un adepto del Sol Invictus
    Mitra, come prima di lui suo zio Costantino il Grande e come la maggior parte dei senatori romani
    del suo tempo.


    Sul mitraismo sono state scritte, soprattutto nell’ultimo secolo, una enorme quantità di opere,
    che però ne forniscono un’immagine del tutto irreale ed estremamente confusa e contraddittoria. La
    confusione nasce dal fatto che tutti gli storici moderni lo considerano una vera e propria religione,
    La convinzione che il Sol Invictus Mitra fosse una religione si è consolidata con lo storico
    Cummont, che alla fine del 19.mo secolo ha scritto quella che da allora è ritenuta l’opera
    fondamentale sul mitraismo, partendo dal presupposto esplicito, vero e proprio postulato privo di
    qualsivoglia supporto bibliografico o archeologico, che esso fosse stato importato dalla Persia da un
    qualche ignoto legionario romano. Ed infatti il Cummont dedica buona parte della sua opera a
    descrivere la religione solare persiana e le sue varie diramazioni e filiazioni orientali, come il
    Mazdeismo, il Magismo e così via.



    Uno dei maggiori studiosi moderni del mitraismo, M.J. Vermaseren, condivide l’impostazione
    di Cummont, ma avverte: “Gli studiosi dei misteri di Mitra si trovano di fronte ad una difficoltà
    insormontabile e cioè: per quanto riguarda la forma persiana del mitraismo esistono soltanto
    evidenze letterarie, mentre il Mitra del mondo romano ci è noto quasi esclusivamente attraverso
    fonti non letterarie, archeologiche. Franz Cummont, quel brillante studioso morto nel 1947, ha
    chiaramente descritto questa situazione nel suo libro Die Mysterien des Mithra: ‘E’ come se, egli
    scrive, volessimo studiare il cristianesimo avendo a disposizione soltanto il Vecchio Testamento e le
    cattedrali medioevali’. A causa di questo enorme divario fra le fonti di informazione, la storia di
    Mitra è destinata a rimanere per sempre incompleta e distorta.”



    In altre parole, abbiamo da una parte una religione persiana di Mitra, sulla quale esiste una
    abbondante letteratura, ma nessun resto archeologico, o quasi; dal lato romano, invece, abbiamo
    centinaia di mitrei ed altre testimonianze archeologiche relative a Mitra, ma pochissime
    testimonianze letterarie sull’argomento, nessuna delle quali proveniente dall’interno stesso
    dell’organizzazione, e cioè da uno dei suoi membri. Il problema nasce appunto dal fatto che
    Cummont ha postulando fin dall’inizio della sua ricerca, senza mai dimostrarlo, che il culto di Mitra
    quale veniva professato nell’impero romano fosse la fotocopia della religione persiana.



    Questo postulato è stato accettato acriticamente da quasi tutti gli studiosi successivi, che si sono
    in maggioranza dedicati ad interpretare le evidenze archeologiche romane alla luce della letteratura
    persiana. ad approfondire i vari aspetti del magismo persiano, o a ricostruire gli aspetti esoterici ed
    astrologici del mitraismo romano, basandosi sulle scarne notizie fatte filtrare dalle fonti antiche ed
    integrandole arbitrariamente con elementi presi a prestito dalle fonti orientali e dalla mitologia
    greco-romana, per cercare di ricostruire in qualche modo contenuti e significati dei vari gradi
    iniziatici in cui l’istituzione mitraica era suddivisa. Ne risulta un quadro complessivo irreale, in
    stridente contrasto con quella che appare essere la realtà storica ed archeologica di questa
    istituzione.



    In realtà se c’è una cosa che appare con assoluta evidenza da tutto il materiale disponibile è che
    il cosiddetto culto di Mitra, a Roma, non era una religione, ma una confraternita di iniziati, divisa in
    vari livelli di iniziazione, che dalla religione orientale aveva preso a prestito soltanto il nome ed
    alcune simbologie esteriori. Quanto ai contenuti, scopi e modi operativi, niente accomuna il Mitra
    persiano e quello romano. L’istituzione mitraica romana in nessun modo può essere definita come
    una religione dedita al culto del sole. Sarebbe come dire che la massoneria moderna è una religione
    dedita al culto del Grande Architetto dell’Universo.



    Il paragone con la massoneria aiuta a capire che genere di istituzione fosse quella mitraica. Si
    tratta, infatti, di istituzioni sostanzialmente simili negli aspetti essenziali. Agli adepti della
    massoneria non viene richiesto di professare una particolare religione, ma soltanto di credere
    nell’esistenza di un’Entità superiore, comunque definita. Questa entità viene rappresentata nei
    templi massonici (che per inciso hanno straordinari punti di similitudine con i mitrei romani, e sono
    popolati di divinità pagane, come Ercole, Minerva e Venere) con un sole inserito in un triangolo e
    con il nome di Grande Architetto dell’Universo, che, guarda caso, è lo stesso che i pitagorici
    attribuivano al Sole. Nei templi vengono effettuati cerimoniali e rituali di iniziazione e di
    apertura/chiusura “lavori”, mai, però, a carattere religioso. La religione è espressamente bandita dai
    templi massonici ed ogni adepto, nella sua vita privata, è libero di professare il credo che più gli
    aggrada.



    Che ci sia una qualche connessione fra mitraismo e massoneria è tutt’altro che improbabile, dal
    momento che ci sono profonde similitudini nell’architettura e nelle decorazioni dei rispettivi templi,
    nei simbolismi, nei rituali e così via; ma non è materia che possa essere trattata in questa sede. Il
    paragone è stato introdotto al solo scopo di far capire quale tipo di istituzione fosse il mitraismo, che
    non era una religione dedita al culto di una qualche specifica divinità, ma una associazione segreta
    di mutua assistenza, i cui membri, nella loro vita pubblica, erano liberi di venerare qualsiasi divinità.
    E’ l’unica chiave di lettura che consenta di capire e conciliare le innumerevoli contraddizioni ed
    incongruenze, cui ci si trova confrontati quando si voglia intendere il mitraismo come una religione.
    Che il mitraismo non fosse una vera e propria religione è provato anche, come vedremo in
    seguito, dalle attività in campo religioso dei suoi adepti, fra cui lo stesso Giuliano. Egli fece
    costruire un mitreo nel suo palazzo, ma non vedeva nessuna delle divinità venerate nell’impero
    come “concorrente” di Mitra; si adoperò anzi in ogni modo perché tutte avessero pari dignità e
    rispetto. Questo era assolutamente tipico della filosofia dell’organizzazione mitraica, come viene
    spiegato approfonditamente nell’opera “Saturnalia”, composta intorno al 430 (ben dopo l’abolizione
    del paganesimo, quindi) dall’eminente scrittore Macrobio, supposto pagano.



    In essa il senatorePretestato, Pater Patrum del culto mitraico (la massima carica dell’organizzazione), in amabile
    conversazione con i grandi senatori mitraici Simmaco e Nicomaco Flaviano, si dilunga a spiegare
    come tutte le divinità pagane non siano altro che diverse manifestazioni, o anche diverse
    denominazioni, di un unico Ente superiore, rappresentato dal Sole, il Grande Architetto
    dell’Universo. “




    Paganesimo monoteista” l’ha definito qualcuno, mentre altri parlano genericamente
    di sincretismo religioso. In effetti tutte le religioni avevano pari dignità nei mitrei, dove
    comparivano le immagini delle principali divinità pagane ed i cui adepti si professavano
    pubblicamente devoti alle più disparate divinità, ivi comprese quella cristiana ed ebraica.
    In quanto mitraico, Giuliano condivideva questa filosofia. Il grande ideale che egli sognò di
    realizzare era perfettamente in linea con la filosofia sincretistica e tollerante del Sol Invictus Mitra.




    Egli progettò, infatti, di fondere tutte le confessioni dell’impero in un’unica super religione, retta da
    una casta sacerdotale e da una liturgia sincretistica unificate.
    Egli cominciò con il richiamare dall’esilio e reinsediare nelle loro sedi i vescovi ortodossi
    allontanati dal suo predecessore, l’ariano Costanzo; ma contemporaneamente pubblicò un editto di
    restituzione dei beni e della libertà di culto per il paganesimo. Poi si dedicò alla riorganizzazione
    delle gerarchie dei sacerdoti pagani, sul modello dell’organizzazione sacerdotale cristiana. Per ogni
    provincia creò un gran sacerdote, non solo per il culto imperiale, ma anche per il complesso di tutti i
    culti tributati agli dei, compreso quello cristiano. Di questi provvedimenti sono state tramandate
    varie lettere di Giuliano, che appaiono quasi delle vere e proprie encicliche, o lettere pastorali. In
    esse l’imperatore si occupava di reclutamenti, consuetudini di vita, formazione e trattamento
    economico dei sacerdoti, del servizio divino, che doveva essere tenuto tre volte al giorno, della
    fondazione di case per le vergini dedite alla vita ascetica (conventi, in pratica), e di ospizi. Inoltre
    Giuliano fece redigere opuscoli informativi per sacerdoti e libri di istruzione per l’insegnamento
    religioso.




    Questo era il grande progetto di Giuliano che, stando all’anonimo estensore cristiano della
    leggenda sulla sua morte, sarebbe stato sconfitto dal “Galileo”, per mezzo di una lancia persiana.
    Questo stesso progetto trovò invece pratica attuazione 27 anni dopo la morte di Giuliano, ad opera
    dell’imperatore Teodosio che nel 392 emanò un decreto che aboliva ufficialmente il paganesimo ed
    imponeva a tutti i sudditi dell’impero di professare la religione cristiana di Roma. Dobbiamo
    concludere che il “Galileo” abbia trionfato, dunque? Sembrerebbe proprio di si. Ma a ben guardare
    la religione che viene professata in suo nome assomiglia in modo impressionante a quella super
    religione vagheggiata da Giuliano, che doveva unificare tutti i culti professati nell’impero.
    Anche l’ideale di Giuliano, quindi, alla fine ha trionfato. Quello che era risultato perdente (ma
    forse la storia sarebbe andata diversamente, se l’ultimo imperatore “pagano” avesse avuto più
    tempo) era soltanto il metodo attraverso cui egli si illudeva di poter realizzare quell’ideale, e cioè
    attraverso la tolleranza reciproca. Teodosio, invece, aveva capito che l’unico modo per arrivarci era
    l’intolleranza. I templi pagani vennero chiusi o distrutti ed ogni forma di culto pagano proibita; ma
    simboli, rituali, usanze, festività ed in molti casi anche lo stesso clero vennero assorbiti in toto nel
    cristianesimo.




    La religione cristiana si autoproclama monoteista, ma al di là delle dichiarazioni di principio
    non è più monoteista di quanto lo fosse il mitraismo. L’Ente Supremo, infatti, è costituito in realtà
    da una Trinità, costituita da un Dio Padre, eterno, onnipotente, onnipresente, creatore di tutte le
    cose; dal suo Figlio unigenito, che ha iniziato ad esistere incarnandosi nel ventre di una donna, per
    opera di un terzo elemento, non ben definito, lo Spirito Santo. Una cosa che riflette in maniera
    lampante la concezione pagana, è il fatto che il Figlio è salito al “cielo” con il suo stesso corpo
    umano, e si trova lì da qualche parte in carne ed ossa. Non può sfuggire la similitudine con la
    concezione mitraica di un ente supremo, rappresentato dal sole e dal suo inviato in terra Mitra,
    incarnatosi anch’egli in una donna e salito al cielo dopo aver compiuto la sua missione.
    Al di sotto di questa Trinità c’è poi tutta una pletora di vere e proprie “divinità” minori, fra cui
    primeggia in modo assoluto la Madonna, le quali hanno sostituito a tutti gli effetti altrettante
    divinità pagane, di cui hanno spesso assorbito simbolismi e funzioni.



    Alla Madonna e ai santivengono erette chiese e santuari e la maggior parte dei fedeli si rivolgono direttamente ad essi, non
    certo all’Ente Supremo, per ottenere grazie e favori, allo stesso modo in cui i fedeli pagani si
    rivolgevano alle varie divinità minori perché intercedessero presso il padre degli dèi. Ogni categoria
    umana, nel paganesimo, aveva una sua divinità protettrice, come ogni categoria umana, nel
    cristianesimo, ha un suo santo protettore.



    Il Cristianesimo ha poi ereditato in massa simboli e festività tipiche del mitraismo. Il giorno
    sacro al sole è diventato la domenica, sacra al Signore. Il Natalis Solis Invicti è diventato il Natale
    di Gesù. Il simbolo del sole è onnipresente in tutte le chiese cattoliche (basti pensare all’ostensorio)
    e nelle immagini di Dio e dei santi, al punto che se un ipotetico archeologo venuto da un altro
    mondo dovesse giudicare il cristianesimo soltanto dalle immagini e simbolismi che compaiono nelle
    chiese, dovrebbe forzatamente concludere che si tratta di una religione dedita al culto del sole. Si
    tratta, in ogni caso, soltanto di immagini esteriori, perché a livello dottrinale e liturgico ha integrato
    un gran numero di elementi giudaici.



    In conclusione, il cristianesimo ha incorporato, rielaborandoli ed armonizzandoli in una cornice
    dottrinale unitaria, sincretistica, gli elementi essenziali delle maggiori religioni professate
    nell’impero romano, realizzando così, per altra via, il sogno di Giuliano.



    Chi ha vinto, dunque, Giuliano o il “Galileo”? La risposta non può essere che una sola:
    entrambi. Vedremo fra poco, infatti, che mitraismo e cristianesimo non erano nemici giurati e
    neppure antagonisti, come ritenuto da molti storici. Erano due facce di una stessa medaglia,
    entrambi funzionali allo stesso scopo e cioè al successo della più grande, ardita e fortunata
    cospirazione dell’intera storia umana.




    Mitra e Gesù, due facce della stessa medaglia






    Nel 384 d.C. moriva a Roma il senatore Vettio Agorio Pretestato, ultimo papa (acronimo di
    pater patrum) di quello che impropriamente viene definito “culto” di Mitra.
    Il suo nome e le sue varie cariche religiose e politiche sono incisi sul basamento della facciata
    della Basilica di San Pietro, in Vaticano, insieme ad una lunga lista di altri senatori romani, stilata
    fra il 305 ed il 390. La cosa che li accomuna è che sono tutti patres mitraici; e ben nove di essi
    rivestono il titolo supremo di Pater Patrum, a riprova del fatto che era qui, nel Vaticano, che si
    trovava la sede del capo supremo dell’organizzazione mitraica, fianco a fianco, se non addirittura
    l’una dentro l’altra, con la Basilica fatta erigere nel 320 dall’imperatore Costantino.



    Per quasi settant’anni i capi supremi di due “religioni” che si è sempre voluto far apparire
    concorrenti ed in aspro conflitto fra loro, hanno convissuto pacificamente ed in perfetta armonia
    nella stessa sede. Quanto fosse pacifica la convivenza è provato dal fatto che fu lo stesso Pretestato,
    nel 367, in qualità di Prefetto dell’Urbe, a confermare sul trono di Pietro il vescovo Damaso.
    Pretestato affermava che avrebbe volentieri accettato di farsi battezzare, se gli avessero offerto
    la cattedra di Pietro. Quel che successe alla sua morte, invece, fu esattamente il contrario.



    Il titolo di Pater Patrum ricadde (oggi si direbbe per default) sul vescovo Siricio, che fu il primo nella storia
    della Chiesa ad assumere l’appellativo di “papa”. Ed insieme ad esso anche tutta una serie di altre
    prerogative, titoli, simbologie e beni materiali passarono in massa dal mitraismo al cristianesimo.
    Per capire quello che appare come un vero e proprio “passaggio di consegne” fra il papa
    mitraico e quello cristiano, bisogna risalire all’anno prima. Nel 383, infatti, il senato romano aveva
    votato a stragrande maggioranza l’abolizione del paganesimo nell’impero d’occidente. Un voto che
    ha lasciato perplessi gli storici, che si sono spesso domandati se fosse dovuto a intimidazioni
    esercitate dall’imperatore Teodosio o a che altro.



    E’ opinione comune fra di essi, infatti, che il senato romano fosse a quell’epoca in maggioranza
    pagano. Anzi, si trova spesso scritto che proprio il senato costituiva l’ultima roccaforte di resistenza
    del paganesimo contro il cristianesimo trionfante. Un’opinione che contrasta in modo stridente con
    ripetute dichiarazioni di San Ambrogio, il quale in quegli stessi anni affermava che i cristiani erano
    in maggioranza nel senato; affermazioni cui gli storici non hanno mai dato alcun credito, ritenendole
    inattendibili. Chi ha ragione, Ambrogio o gli storici moderni?




    Certamente dobbiamo ritenere del tutto inverosimile che il vescovo di Milano, che apparteneva
    ad una grande famiglia senatoriale e seguiva attentamente le questioni romane, si sbagliasse su una
    questione del genere. D’altro canto, però, non possiamo neppure biasimare gli storici, dal momento
    che prove documentali ed archeologiche confermano che la grande maggioranza dei senatori romani
    erano allora “patres” del Sol Invictus Mitra, e quindi, secondo l’opinione universalmente accettata,
    dichiaratamente pagani.




    Quello che nessuno storico ha mai capito, però, o meglio non ha mai voluto capire nonostante
    numerose evidenze storiche, è che le due condizioni, di adepto del mitraismo e di cristiano (non
    battezzato), non erano affatto incompatibili.





    L’esempio più lampante è costituito dall’imperatore Costantino, ma se ne potrebbe compilare
    una sostanziosa lista. Costantino era adepto del Sol Invictus Mitra e mai lo rinnegò, anche quando si
    proclamava “servo di Dio” e affermava di essere “il vescovo costituito da Dio per l’umanità fuori
    dalla Chiesa”. Il suo biografo Eusebio lo definisce addirittura “il novello Mosé” e “una sorta di
    vescovo universale”. Ma Costantino si fece battezzare solo in punto di morte, continuò per anni a
    battere monete con simboli mitraici da un lato, cristiani dall’altro e innalzò a Costantinopoli una
    statua colossale di se stesso, con simboli mitraici.


    D’altra parte gli stessi senatori mitraici avevano in maggioranza mogli e figlie cristiane, come
    testimoniato, fra gli altri, da San Girolamo. Un esempio illustre è quello di San Ambrogio, ritenuto
    dagli storici inizialmente pagano, figlio di un pagano mitraico, il prefetto delle Gallie Ambrogio,
    nonostante non ci sia alcun dubbio che la sua famiglia fosse cristiana e vivesse in ambiente
    profondamente cristiano. Da bambino, infatti, Ambrogio amava giocare a fare il vescovo e nel 353
    sua sorella Marcellina ricevette il velo delle vergini consacrate dal papa Liberio in persona, nella
    basilica di San Pietro. Formalmente, però, egli rimase “pagano” fino al momento stesso in cui fu
    designato vescovo di Milano; fu battezzato, infatti, soltanto quindici giorni prima di essere
    consacrato vescovo.



    Il fatto è che a quell’epoca i cristiani destinati alla carriera politica (Ambrogio era governatore
    del Nord Italia al momento della nomina a vescovo) erano battezzati soltanto in punto di morte,
    oppure quando, per una qualche ragione, decidevano di abbracciare la carriera ecclesiastica. Era la
    prassi, allora. Il senatore Nectarius, per esempio, che era stato designato vescovo di Antiochia dal
    concilio di Costantinopoli del 381, fu costretto a posporre la cerimonia della sua consacrazione
    perché dovette prima provvedere a quella del proprio battesimo.



    Subito dopo il voto di abolizione del paganesimo, i senatori romani abbracciarono in massa la
    fede cristiana (pur continuando a mantenere, in molti casi, mitrei privati), a cominciare da quel
    Simmaco, pater mitraico, che è passato alla storia per la sua strenua quanto vana difesa della
    tradizione “pagana”, di fronte all’imperatore Valentiniano. Pochi anni dopo, infatti, il cristianissimo
    imperatore Teodosio, fanatico persecutore di ogni eresia e residuo pagano, lo gratificò elevandolo
    agli onori del consolato.



    E’ possibile, ci si chiederà, che una persona potesse aderire contemporaneamente a due diverse
    religioni? Qui sta il punto essenziale. Si è già visto come, per un evidente quanto incredibile
    equivoco (ma forse non si sbaglierebbe di molto se si parlasse di deliberata mistificazione), il
    cosiddetto “culto” del Sol Invictus Mithra , è sempre stato ritenuto una “religione”, sorta in parallelo
    al cristianesimo e in concorrenza con esso. C’è addirittura chi ritiene che questa “religione” fosse
    talmente radicata e diffusa nella società romana, che soltanto per un soffio perse la gara con il
    cristianesimo. Più moderatamente, il Renan affermava che se per un qualche accidente il
    cristianesimo fosse abortito nel corso del quarto secolo, il mondo sarebbe stato mitraico.
    E’ un chiaro riconoscimento del potere e del capillare controllo che l’organizzazione mitraica
    aveva conseguito nel corso del quarto secolo sull’intera società romana. Organizzazione segreta di
    tipo esoterico, non certo religione. Nonostante il parere del Renan, infatti, non si riesce proprio ad
    immaginare in che cosa potesse consistere una “religione” mitraica romana, dal momento che gli
    adepti dell’organizzazione si proclamavano pubblicamente fedeli o sostenitori di un gran numero di
    altre divinità, che comprendevano praticamente l’intero olimpo pagano.




    La maggioranza degli storici concordano sul fatto che gli adepti mitraici erano, a modo loro,
    monoteisti. Quello che dimenticano di sottolineare è che, grazie alla loro particolare filosofia
    sincretistica, essi “infiltrarono” e si impadronirono del culto (e delle relative prebende) di tutte le
    divinità pagane.


    Infatti tutte le “grotte” mitraiche ospitavano (esattamente come i templi massonici moderni) una
    schiera di divinità pagane, come Saturno, Atena, Venere, Eercole e così via e gli adepti di Mitra (che
    fra l’altro erano esclusivamente uomini, essendo le donne categoricamente escluse
    dall’organizzazione) nella loro vita pubblica esercitavano la funzione di sacerdoti al servizio non
    soltanto del Sole, che era venerato in templi pubblici ben distinti dai mitrei (che erano invece
    minuscoli vani sotterranei accessibili solo agli adepti, i quali vi tenevano riunioni ammantate dal più
    stretto segreto), ma anche di altre divinità romane.



    Questo è provato al di là di ogni possibile dubbio proprio dalle iscrizioni che si trovano sul
    basamento della Basilica di S. Pietro. Scorrendo la lista dei senatori ivi elencati, infatti, si scopre
    che, oltre al titolo di “patres” del Sol Invictus Mitra, essi ricoprivano anche una lunga serie di
    cariche nel culto di altre divinità, come sacerdos, hieroceryx, hierophanta e archibucolus di Bronto
    o di Ecate, Iside e Libero, maior augur, quindecimvir sacris faciundis e per finire anche pontifex di
    vari culti pagani, e naturalmente erano responsabili del collegio delle vestali e del sacro fuoco di
    Vesta. Non c’era nel Senato alcuna manifestazione di culto legato alla tradizione pagana che non
    venisse celebrata da un senatore mitraico. E quello stesso senatore, il più delle volte, aveva alle
    spalle una famiglia profondamente cristiana. Ed in ogni caso abbracciò immediatamente il
    cristianesimo non appena il paganesimo fu abolito.



    Sorge allora spontanea una domanda: i senatori mitraici erano soltanto pagani o anche cristiani?
    Su questo punto le evidenze in nostro possesso sono piuttosto ambigue. Anche il carattere dello
    stesso Mitra, come viene dipinto dagli scrittori cristiani, è assolutamente ambiguo. Fra lui e Gesù
    esiste una lunga serie di analogie: Mitra era nato in una stalla, il 25 Dicembre, da una madre
    vergine, circondato da pastori che portavano doni. Era venerato nel giorno dedicato al sole, la
    domenica. Attorno alla testa aveva un’aureola. Celebrò un’ultima cena insieme ai suoi seguaci più
    fedeli, prima di far ritorno al a suo padre. Si diceva che non fosse morto, ma che fosse asceso al
    cielo, da dove sarebbe tornato alla fine del mondo, per resuscitare i morti e giudicarli, mandando i
    buoni in paradiso e i cattivi all’inferno. Garantiva ai suoi fedeli l’immortalità, conseguita attraverso
    il battesimo.



    Gli adepti di Mitra, quindi, credevano come i cristiani nell’immortalità dell’anima, nel giudizio
    universale, nella resurrezione dei morti e nella fine del mondo. Celebravano la morte di un salvatore
    che era risorto una domenica. Celebravano una cerimonia analoga alla Messa cristiana, durante la
    quale consumavano pane consacrato e vino in memoria dell’ultima cena di Mitra. E durante la
    cerimonia cantavano inni, suonavano campanelli, accendevano ceri e usavano acqua consacrata.
    Essi condividevano con i cristiani una lunga serie di altre credenze e pratiche rituali, al punto da
    essere praticamente indistinguibili da essi, agli occhi dei pagani ed anche di molti cristiani.



    L’esistenza di una sotterranea connessione tra il cristianesimo ed il mitraismo fin dai primi
    tempi è ammessa anche dai padri della Chiesa. Tertulliano scrive che i pagani “…credono che il Dio
    dei cristiani è il Sole, perché è noto che noi preghiamo rivolti verso il sole nascente e che nel giorno
    del sole facciamo festa (Tertulliano, Ad Nationes, 1, 13). Egli cerca di giustificare la sostanziale
    identità fra le due “religioni” agli occhi dei fedeli cristiani, attribuendola al fatto che satana avrebbe
    plagiato i rituali più sacri e le credenze della religione cristiana. Costantino credeva che Gesù Cristo
    ed il Solo Invictus Mitra fossero entrambi aspetti della stessa divinità superiore. Certamente egli non
    era il solo a nutrire questa convinzione.


    I neoplatonici sostenevano che il mitraismo rappresentava
    un “ponte” fra paganesimo e cristianesimo. Gesù era spesso chiamato con il nome Sol Iustitiae ed
    era rappresentato con statue aventi le sembianze del giovane Apollo (curiosamente anche
    Michelangelo, nel grandioso affresco del Giudizio Universale della cappella Sistina, ha
    rappresentato Gesù con il volto dell’Apollo del Belvedere). Clemente di Alessandria descrive Gesù
    alla guida del carro del sole attraverso il cielo, ed un mosaico del quarto secolo, in Vaticano, lo
    mostra sul carro del sole, mentre ascende al cielo.


    Su alcune monete del quarto secolo lo stendardo cristiano riporta la scritta “Sol Invictus”.

    Un larga parte della popolazione romana pensava che il
    Cristianesimo ed il culto del sole fossero intimamente collegati, se non proprio la stessa cosa.


    Anche dopo l’abolizione del paganesimo, i romani continuarono a lungo a venerare entrambi, sia
    Cristo che il Sole. Nel 410 d.C. papa Innocenzo autorizzò la ripresa di cerimonie in onore del sole,
    sperando in questo modo di scongiurare il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. E ancora
    nel 460 papa Leone il Grande scriveva: “… molti cristiani, prima di entrare nella basilica di San
    Pietro, si rivolgono verso il sole e si inchinano in suo onore”. Il vescovo di Troy continuò a
    professare apertamente il culto del sole anche durante il suo episcopato. Un altro notevole esempio
    in questo senso è dato da Sinesio di Cirene, un discepolo della famosa filosofa neoplatonica Ipazia,
    che fu trucidata nel 415 ad Alessandria d’Egitto. Sinesio, non ancora battezzato, fu eletto vescovo di
    Tolemaide e vescovo metropolitano di Cirenaica, ma accettò la carica soltanto a condizione di non
    dover ritrattare le sue convinzioni neoplatoniche o rinunciare al culto del sole. Ancor oggi il simbolo
    del sole è universalmente presente in tutte le chiese ed in tutti gli oggetti di culto cristiani.




    Alla luce di questi fatti come dobbiamo considerare la posizione dell’istituzione mitraica nei
    confronti del cristianesimo? Erano concorrenti o cooperatori? Amici o nemici? Forse la migliore
    indicazione ci è fornita dalle monete che Costantino fece coniare fino al 320 d. C., con simboli
    cristiani su un lato, mitraici sull’altro. E’ possibile che Cristo e Mitra fossero due facce di una stessa
    medaglia?




    Le origini del Mitraismo e del Cristianesimo





    Per spiegare la stretta relazione esistente fra Cristianesimo e Mitraismo dobbiamo risalire alle
    loro origini.


    Per universale consenso, il cristianesimo come noi lo conosciamo è una creazione di San Paolo,
    il fariseo che fu inviato da Gerusalemme a Roma nel 61 circa, dove fondò la prima comunità
    cristiana della capitale. La religione predicata a Roma da Paolo era assai diversa da quella predicata
    da Gesù in Palestina e praticata da Giacomo il Giusto, l’allora capo della comunità cristiana di
    Gerusalemme. La predicazione di Gesù era in linea con il modo di vivere e pensare della setta
    giudaica degli Esseni. I contenuti dottrinali del cristianesimo affermatosi a Roma alla fine del primo
    secolo, invece, sono straordinariamente vicini a quelli della setta dei farisei, a cui Paolo
    apparteneva.



    Paolo fu condannato a morte probabilmente nel 67 da Nerone, insieme alla maggior parte dei
    suoi discepoli. La comunità cristiana di Roma fu decimata dalla persecuzione neroniana. Non
    abbiamo alcuna informazione su quel che accadde in seno a questa comunità nei successivi 30 anni;
    un black out di notizie che lascia alquanto perplessi, perché sappiamo per certo che durante quel
    periodo a Roma dovette succedere qualcosa di molto importante. Infatti, alcuni dei più eminenti
    cittadini della capitale furono convertiti al cristianesimo, come il console Flavio Clemente, cugino
    dell’imperatore Domiziano. Inoltre la chiesa di Roma assunse una struttura monarchica e impose la
    sua leadership su tutte le comunità cristiane dell’impero, che dovettero uniformarsi al modello ed
    alle credenze della chiesa romana. Questo è provato al di là di ogni dubbio da una lunga lettera di
    papa Clemente ai Corinzi, scritta verso la fine del regno di Domiziano, in cui è chiaramente
    affermata la supremazia della Chiesa di Roma.




    Ciò significa che durante gli anni del black out qualcuno che aveva accesso alla famiglia
    imperiale aveva risollevato le sorti della comunità cristiana romana al punto da consentirle di
    imporre la propria autorità su tutte le altre comunità cristiane dell’impero. Ed era “qualcuno” che
    conosceva perfettamente la dottrina ed il pensiero di Paolo, 100% farisaico.





    Anche l’organizzazione mitraica era nata nello stesso periodo e nello stesso ambiente. Data la
    scarsità di informazioni scritte su questo argomento, l’origine e la diffusione del culto di Mitra ci
    sono note quasi esclusivamente grazie ai reperti archeologici (resti di mitrei, scritte dedicatorie,
    iconografie e statue del dio, rilievi, pitture, mosaici ecc.) che sono stati rinvenuti in abbondanza in
    tutto l’impero romano. Queste testimonianze archeologiche provano in maniera praticamente certa
    che, a parte il nome comune, non c’era alcuna relazione fra il culto di Mitra romano e la religione
    orientale da cui si suppone (o meglio si postula) che sia derivato. In tutto il mondo persiano, infatti,
    non è mai stato trovato nulla di simile ad un mitreo romano.



    Quasi tutti i monumenti mitraici rinvenuti possono essere datati con relativa precisione, dal
    momento che vi si trovano iscrizioni dedicatorie. Pertanto, tempi e circostanze della diffusione del
    culto del Sol Invictus Mitra (questi tre nomi compaiono quasi sempre assieme in tutte le iscrizioni,
    pertanto non c’è dubbio che si riferiscono alla stessa ed unica istituzione) ci sono noti con
    ragionevole precisione e certezza. Conosciamo anche il nome, la professione e le responsabilità di
    un gran numero di suoi membri.



    Il primo mitreo di cui si abbia evidenza fu costruito a Roma, al tempo di Domiziano, e ci sono
    precise indicazioni che fosse frequentato da persone vicine alla famiglia imperiale, in particolare
    liberti giudaici. Il mitreo, infatti, fu dedicato da un certo Tito Flavio Igino Efebiano, un liberto
    dell’imperatore Tito Flavio, pertanto quasi certamente un giudeo romanizzato. Da Roma
    l’organizzazione mitraica si diffuse, nel corso del secondo secolo, in tutto l’impero occidentale.
    C’è un terzo avvenimento, accaduto in quello stesso periodo ed in qualche modo collegato alla
    famiglia imperiale ed agli ambienti giudaici, a cui gli storici non hanno mai prestato particolare
    attenzione: l’arrivo a Roma di un importante gruppo di persone, 15 alti sacerdoti giudaici, con le
    loro famiglie e parenti. Appartenevano alla classe sacerdotale che aveva governato Gerusalemme
    per mezzo millennio, fin dal ritorno dall’esilio babilonese, quando 24 famiglie sacerdotali, sotto gli
    auspici di Esdra, avevano stipulato fra loro un accordo e creato un’organizzazione segreta con lo
    scopo di assicurare le proprie fortune, per mezzo della “proprietà” esclusiva del Tempio e
    l’esclusiva amministrazione del sacerdozio.




    La dominazione romana della Giudea era stata segnata da forti tensioni sul piano religioso, che
    avevano provocato una serie di rivolte, l’ultima delle quali, nel 66 d.C., fu fatale per la nazione
    giudaica e per la stessa famiglia sacerdotale. Con la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito
    Flavio, nel 70 d.C., lo strumento principale del potere della famiglia, il Tempio, fu raso al suolo, e
    mai più ricostruito, ed i sacerdoti furono uccisi a migliaia.




    Ci furono dei superstiti, naturalmente, in particolare un gruppo di 15 alti sacerdoti che erano
    passati dalla parte dei romani, consegnando a Tito il tesoro del tempio, e per questa ragione erano
    stati reintegrati nelle loro proprietà e gli era stata concessa la cittadinanza romana. Essi avevano poi
    seguito Tito a Roma, dove apparentemente scomparvero per sempre dalla scena della storia, a parte
    quello che indubbiamente appare come la personalità più forte di quel gruppo, Giuseppe Flavio.
    Giuseppe era un sacerdote che apparteneva alla più illustre delle 24 famiglie sacerdotali
    giudaiche. Al tempo della rivolta contro Roma aveva ricoperto un ruolo di primo piano nelle
    tormentate vicende della Palestina. Inviato dal Sinedrio quale governatore della Galilea, egli era
    stato il primo a combattere contro le legioni del generale romano Tito Flavio Vespasiano, che aveva
    ricevuto da Nerone l’incarico di reprimere la rivolta.



    Barricato nella fortezza di Jotapata egli
    resistette valorosamente all’assedio delle truppe romane, ma alla fine dovette capitolare. Egli si
    arrese a condizione di poter parlare personalmente con Vespasiano (Guerra Giudaica, III, 8,9). Il
    loro incontro segnò una svolta nelle fortune di entrambi: Vespasiano qualche tempo dopo divenne
    imperatore, mentre Giuseppe non soltanto ebbe salva la vita, ma fu “adottato” nella famiglia
    imperiale ed assunse il nome di Flavio. In seguito ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a
    Roma, una rendita annua a spese dello stato ed enormi proprietà in Palestina. Il prezzo del suo
    tradimento (fu lui, probabilmente, che fornì a Vespasiano i mezzi economici per diventare
    imperatore).




    I sacerdoti di questo gruppo avevano una cosa in comune fra loro: erano tutti traditori del loro
    popolo e quindi certamente non bene accetti in seno alle comunità giudaiche. Appartenevano tutti,
    però, ad una famiglia dalle tradizioni millenarie, erano legati fra loro dall’organizzazione segreta
    creata a suo tempo da Esdra e possedevano una specializzazione ed una esperienza unica nel gestire
    una religione e governare un paese tramite questa. I poveri resti della comunità cristiana romana,
    sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, offrivano loro una splendida opportunità di mettere a
    frutto la loro millenaria esperienza e le loro notevoli sostanze.



    Non sappiamo nulla della loro attività a Roma, ma ne abbiamo chiare indicazioni attraverso gli
    scritti di Giuseppe Flavio. Dopo alcuni anni, infatti, egli cominciò a scrivere la storia di quegli
    avvenimenti che lo avevano avuto protagonista, con l’intento, a quanto sembra, di giustificare il
    proprio tradimento e quello dei suoi compagni. Era stata la volontà di Dio, egli afferma, che lo
    aveva chiamato a costruire un Tempio Spirituale, al posto di quello materiale distrutto da Tito.
    Queste parole certamente non erano rivolte ad orecchie giudaiche, ma cristiane. La maggior
    parte degli storici sono scettici sul fatto che Giuseppe fosse cristiano, ma ci sono forti elementi che
    lo confermano. In un passo famoso del suo libro “Antichità Giudaiche” (il cosiddetto Testimonium
    Flavianum) egli dichiara di accettare due punti fondamentali, la resurrezione di Cristo e la sua
    identificazione con il messia delle profezie, che sono condizione necessaria e sufficiente, per un
    giudeo del suo tempo, per essere considerato cristiano. Le simpatie cristiane di Giuseppe traspaiono
    inoltre molto chiaramente da altri passi della stessa opera, nei quali egli parla con grande
    ammirazione di Giovanni Battista e del fratello di Gesù, Giacomo.




    Giuseppe Flavio e San Paolo




    Le argomentazioni usate da Giuseppe Flavio per giustificare il proprio tradimento e quello dei
    suoi fratelli, sembrano riecheggiare le parole di San Paolo. I due sembrano essere in sintonia per
    quel che riguarda il loro atteggiamento nei confronti del mondo romano. Paolo considerava suo
    compito liberare la chiesa di Gesù dalle strettoie del giudaismo e dalla dipendenza dal territorio
    palestinese, e di renderla universale, legandola a Roma. Essi sono in sintonia anche su altri punti
    fondamentali, come ad esempio sul fatto che entrambi dichiarano di credere nella dottrina dei
    farisei, che è poi quella che è stata pienamente recepita dalla chiesa di Roma.
    Ci sono sufficienti indicazioni storiche per concludere con certezza che i due si conoscevano ed
    erano legati da una profonda amicizia.



    Negli Atti degli Apostoli si legge che, dopo essere tornato a
    Gerusalemme, Paolo fu condotto di fronte ai sommi sacerdoti ed al Sinedrio per essere giudicato
    (Atti 22, 30). Egli si difese dicendo:
    “Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della
    speranza nella resurrezione dei morti”. Appena egli ebbe detto ciò scoppiò una disputa tra i
    farisei ed i sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è
    resurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei, invece, professano tutte queste cose. Ne nacque
    allora un grande clamore ed alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi protestavano
    dicendo: “Non troviamo nulla di male in quest’uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse
    parlato davvero?” La disputa si accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse
    linciato da costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e ricondurlo
    nella fortezza.” (Atti, 23; 1-10)




    Giuseppe era un sacerdote di alto rango e a quel tempo si trovava a Gerusalemme; era
    certamente presente a quell’assemblea. Egli aveva aderito alla setta dei farisei all’età di 19 anni,
    pertanto doveva essere fra quei sacerdoti che si alzarono in difesa di Paolo. L’apostolo fu
    consegnato al governatore romano Felice, che lo tenne agli arresti per qualche tempo, fino a che fu
    inviato a Roma, insieme ad altri prigionieri (Atti 27, 1), per essere giudicato dall’imperatore, al
    quale Paolo, in qualità di cittadino romano, si era appellato. A Roma egli passò due anni in prigione
    (Atti, 28,29) prima di essere liberato, nel 63 o 64 d.C.





    Nel sua autobiografia Giuseppe scrive:
    “Tra i venticinque ed i ventisei anni mi imbarcai in un viaggio a Roma, per la seguente
    ragione. Durante il periodo in cui fu governatore della Giudea, Felice aveva mandato alcuni
    sacerdoti a Roma, per giustificarsi di fronte all’imperatore. Io li conoscevo come ottime
    persone, che erano state arrestate su accuse insignificanti. Siccome volevo studiare un piano
    per liberarli … mi imbarcai per Roma” (Vita, 3, 13).




    In qualche modo Giuseppe riuscì a raggiungere Roma, dove strinse amicizia con un certo
    Alituro, un mimo giudeo che era molto apprezzato da Nerone. Tramite Alituro, egli fu presentato a
    Poppea, moglie dell’imperatore, e grazie a lei riuscì a far liberare i sacerdoti suoi amici (Vita 3, 16).
    La coincidenza di date, fatti e persone coinvolte è assoluta, al punto che è impossibile sfuggire alla
    conclusione che Giuseppe venne a Roma, a suo rischio e spese, appositamente per liberare Paolo ed
    i suoi compagni, e che fu proprio grazie al suo intervento che l’apostolo fu rilasciato. Questo
    presuppone che i rapporti fra i due fossero molto più stretti che non una semplice conoscenza
    occasionale. Pertanto Giuseppe doveva conoscere del cristianesimo molto più di quanto traspare dai
    suoi scritti, e la sua conoscenza proveniva direttamente dagli insegnamenti di Paolo, di cui era
    verosimilmente un discepolo.




    Quando Giuseppe tornò a Roma al seguito di Tito, nel 70 d.C., il suo maestro era stato
    giustiziato, insieme a una gran parte dei cristiani che lui stesso aveva convertito, la Giudea era sta
    cancellata dal novero delle nazioni, il Tempio distrutto, la famiglia sacerdotale quasi sterminata, e la
    sua stessa reputazione macchiata dall’onta del tradimento. Doveva essere animato da un forte
    risentimento e da un irreprimibile desiderio di rivincita e vendetta. Inoltre doveva sentirsi in carico
    dei destini degli umiliati rimasugli di una delle più grandi famiglie del mondo di allora, i 15 alti
    sacerdoti giudaici che condividevano le sue stesse condizioni. Ci sono indizi secondo cui Giuseppe
    Flavio, senza dubbio la personalità più forte ed autorevole di quel gruppo di persone, presiedette
    una riunione durante la quale quei sacerdoti esaminarono la situazione della famiglia sacerdotale e
    decisero una strategia per risollevare le sue fortune.




    Giuseppe lucidamente concepì un piano che in quelle circostanze sarebbe apparso a chiunque
    assolutamente folle. Quell’uomo, seduto fra le rovine fumanti di quella che era stata la sua patria,
    circondato da pochi sopravvissuti, umiliati e demoralizzati, rifiutati dai loro stessi concittadini,
    progettò nientemeno che di conquistare quell’enorme potentissimo impero che lo aveva sconfitto, e
    di insediare i propri discendenti e quelli degli uomini intorno a lui quale classe dirigente di quello
    stesso impero.




    Il primo passo di questa strategia era di assumere il controllo della neonata religione cristiana e
    trasformarla in una solida base di potere per la famiglia sacerdotale. Quei sacerdoti erano venuti a
    Roma al seguito di Tito, di cui godevano la protezione, ed erano provvisti di grandi mezzi
    economici. Non dovettero incontrare eccessive difficoltà nell’assumere la guida del piccolo gruppo
    di cristiani che erano sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, tanto più che erano legittimati dai
    precedenti rapporti di Giuseppe Flavio con Paolo.




    Erano trascorsi soltanto sei anni da quando Giuseppe aveva ottenuto la liberazione di Paolo
    dalla prigione. L’apostolo doveva essere morto da non più di tre anni. Giuseppe deve essersi sentito
    moralmente obbligato a continuare l’opera del suo vecchio maestro, di cui conosceva perfettamente
    la dottrina; rendendosi conto del suo potenziale di propagazione nel mondo romano, si dedicò
    anima e corpo alla sua implementazione pratica, coadiuvato dai sacerdoti superstiti. Una volta
    ricreata una forte comunità cristiana nella capitale, che comprendeva addirittura alcuni membri
    della famiglia imperiale, non dovette essere difficile per quei sacerdoti imporre la propria autorità
    sulle altre comunità cristiane sparse per l’impero, prime fra tutte quelle che erano state create o
    catechizzate dallo stesso Paolo.





    Giuseppe Flavio ed il Sol Invictus Mitra






    Giuseppe Flavio sapeva fin troppo bene che una religione non ha futuro se non entra a far parte
    integrante di un sistema di potere politico. Era un concetto, per così dire, innato nel DNA dei
    sacerdoti di Giuda che religione e potere politico vivono in simbiosi, sostenendosi a vicenda. Non è
    immaginabile che egli pensasse che la nuova religione potesse diffondersi nell’impero
    indipendentemente, o addirittura in contrasto con il potere politico. Il suo obiettivo primario,
    pertanto, dovette essere quello di conquistare il potere politico. Grazie alla millenaria esperienza
    della sua famiglia ed alla sua stessa esperienza di vita, Giuseppe sapeva bene che il potere politico,
    specie in un organismo elefantiaco come l’impero romano, era basato sul potere militare, ed il
    potere militare su quello economico, a sua volta basato sulla capacità di influenzare e controllare le
    leve finanziarie del paese. Nel suo piano egli deve aver programmato che la famiglia sacerdotale
    assumesse prima o poi il controllo di queste leve. Allora l’impero sarebbe stato nelle sue mani e la
    nuova religione sarebbe stato lo strumento per controllarlo.




    Ma qual era il piano di Giuseppe Flavio per realizzare questo ambizioso progetto? Non dovette
    inventare nulla di nuovo. Il modello era già lì, l’organizzazione segreta creata da Esdra al rientro
    dall’esilio babilonese, la quale aveva assicurato alla famiglia sacerdotale giudaica potere e
    prosperità per mezzo millennio. Dovette apportarvi soltanto alcuni ritocchi, per mimetizzare questa
    istituzione nel mondo pagano sotto le sembianze di una religione misterica, dedicata al dio greco
    Helios, il sole, per l’indubbia assonanza con il nome della divinità ebraica El, o El Elyon. Il dio fu
    presentato come invincibile, il Sol Invictus, per galvanizzare lo spirito dei suoi adepti, ed al suo
    fianco fu posto, come inseparabile compagno, una divinità solare di quella stessa Mesopotamia da
    dove gli ebrei avevano avuto origine, Mitra, l’inviato del Sole sulla terra per redimere l’umanità. E
    tutto attorno ad essi, nei mitrei, furono poste le statue di varie divinità pagane, Atena, Ercole,
    Venere e così via. L’insieme era un evidente riferimento a Dio Padre, ed al suo inviato sulla terra
    Gesù, circondati dai loro attributi di saggezza, forza, bellezza e così via, che era chiaramente
    comprensibile ad un cristiano, ma era perfettamente pagano agli occhi di un pagano.




    Questa organizzazione non aveva alcun fine religioso: il suo unico scopo era preservare l’unione
    fra le famiglie sacerdotali e garantire loro sicurezza e prosperità, tramite il mutuo supporto ed una
    strategia comune intesa ad infiltrare tutte le posizioni di potere della società romana. I lavori che
    venivano svolti nei mitrei erano coperti dal più rigoroso segreto. Nonostante l’organizzazione
    mitraica abbia operato per tre secoli ed abbia avuto migliaia di adepti, molti dei quali eminenti
    letterati, non è giunta fino a noi neppure una parola, scritta direttamente da un suo membro, su quel
    che accadeva nel corso delle riunioni mitraiche, quali decisioni venivano prese e così via. Questo
    significa che fu sempre mantenuto il più rigoroso riserbo sui lavori che venivano svolti in un mitreo.
    L’accesso all’organizzazione doveva essere riservato ai soli membri delle famiglie sacerdotali,
    almeno al livello operativo, quello decisionale, dal terzo grado in su (occasionalmente potevano
    essere affiliate nei primi due gradi persone non appartenenti a queste famiglie, come nel caso
    dell’imperatore Commodo).





    Questo sistema di reclutamento è perfettamente in linea con le
    evidenze storiche ed archeologiche in nostro possesso. Anche al culmine del suo potere e
    diffusione, il Sol Invictus Mitra appare una istituzione di elite, con un numero assai limitato di
    adepti. La maggior parte dei mitrei, infatti, erano stanze molto piccole, che non potevano ospitare
    più di una ventina di persone. Certamente, quindi, non era una religione di massa, ma
    un’organizzazione a cui potevano accedere soltanto i vertici delle forze armate e della burocrazia
    imperiale. Tuttavia non conosciamo assolutamente nulla della politica di reclutamento di questa
    istituzione. Non sappiamo se reclutasse i suoi membri fra gli alti ranghi della società romana, o se al
    contrario erano i membri di questa organizzazione che “infiltravano” tutte le posizioni di potere di
    questa società. Le evidenze storiche in nostro possesso favoriscono l’ipotesi che l’appartenenza a
    questa istituzione fosse riservata su base etnica.




    Per capire il suo successo, dobbiamo ritenere che
    ’accesso ad essa, almeno al livello operativo, fosse riservato ai discendenti di quel gruppo di
    sacerdoti giudaici che erano venuti a Roma al seguito di Tito, dopo la distruzione di Gerusalemme.
    Il Sol Invictus Mitra conquista l’impero romano
    Sia le fonti scritte che le testimonianze archeologiche confermano che da Domiziano in poi
    Roma rimase sempre la sede più importante del Sol Invictus Mitra, che si era saldamente installato
    nel cuore stesso dell’amministrazione imperiale, sia nel palazzo vero e proprio che nella guardia
    pretoriana. Da Roma l’organizzazione mitraica si diffuse immediatamente nella vicina Ostia, il
    porto con il più grande volume di traffico commerciale dell’intero Mediterraneo, dove confluivano
    merci da ogni parte dell’impero, per soddisfare l’insaziabile appetito della capitale. Nel corso del
    secondo e terzo secolo vi furono costruiti almeno una quarantina di mitrei, evidente dimostrazione
    che i membri dell’organizzazione mitraica avevano assunto il controllo delle attività commerciali
    del porto, sorgente di entrate incalcolabili e di grande potere economico.




    Nel contempo l’istituzione mitraica si diffuse in tutto il resto dell’impero, in particolare in
    quello occidentale. Il primo mitreo di cui si abbia notizia al di fuori della cerchia romana fu
    costruito intorno al 110 d.C in Pannonia, a Poetovio, il maggior centro doganale della regione ad
    opera dei funzionari della dogana. Quasi contemporaneamente sorse un mitreo presso la
    guarnigione militare di Carnutum, sempre in Pannonia e subito dopo in tutte le province danubiane
    (Rezia, Norico, Mesia e Dacia). Tra gli adepti di Mitra ritroviamo i funzionari delle dogane, che
    raccoglievano le gabelle poste su ogni genere di trasporto dall’Italia verso il Centro Europa e
    viceversa; i funzionari imperiali che controllavano i trasporti, la posta, l’amministrazione delle
    finanze e le miniere; ed infine gli ufficiali che comandavano le guarnigioni scaglionate lungo il
    confine. Contemporaneamente al bacino danubiano, sorsero numerosi mitrei anche nel bacino del
    Reno, a Bonn e Treviri. Seguirono poi la Britannia, la Spagna ed il Nord Africa, dove sorsero mitrei
    già nelle prime decadi del secondo secolo, sempre associati a centri amministrativi e guarnigioni
    militari.




    Le evidenze archeologiche, quindi, dimostrano che nel corso del secondo secolo i membri del
    Sol Invictus Mitra occuparono le principali posizioni dell’amministrazione pubblica, divenendo la
    classe dominante nelle province esterne dell’impero, soprattutto nell’Europa centrale e
    settentrionale. Abbiamo visto in precedenza che i membri del Sol Invictus Mitra avevano infiltrato
    anche la tradizionale religione pagana, assumendo il controllo del culto delle principali divinità, a
    cominciare dal Sole.



    La mossa vincente, tuttavia, quella che rese irresistibile l’ascesa dell’istituzione mitraica, fu la
    presa di controllo dell’esercito. Giuseppe Flavio sapeva per esperienza personale che l’esercito
    poteva diventare l’arbitro del trono imperiale. Chiunque controllava l’esercito controllava l’impero.
    L’obiettivo principale che egli fissò per l’organizzazione mitraica dovette essere quello di infiltrare
    l’esercito e assumerne il controllo.




    Ed infatti ritroviamo mitrei in tutti i luoghi in cui erano stazionate delle guarnigioni militari. In
    poco meno di un secolo l’istituzione mitraica riuscì ad assumere il controllo di tutte le legioni
    stazionate nelle province esterne e lungo i confini, al punto che il “culto” del Sol Invictus Mitra è
    considerato dagli storici come la religione tipica dei soldati romani. Prima ancora che all’esercito,
    tuttavia, le attenzioni del Sol Invictus si erano rivolte alla guardia pretoriana, la guardia personale
    dell’imperatore. Non è un caso che la seconda iscrizione dedicatoria mitraica, in ordine di tempo,
    riguardi proprio un comandante del Pretorio e che la concentrazione di mitrei fosse particolarmente
    elevata nei pressi delle caserme dei pretoriani. L’infiltrazione di questo corpo militare deve essere
    iniziata già al tempo degli imperatori Flavii. Essi potevano contare sulla fedeltà incondizionata dei
    liberti giudaici, che dovevano tutto ad essi, la loro vita, la sicurezza ed il benessere.





    Gli imperatori
    romani erano riluttanti a mettere la propria sicurezza personale nelle mani di ufficiali provenienti
    dai ranghi del senato, il loro maggior opponente politico, pertanto i quadri della loro guardia
    personale furono formati principalmente da liberti e membri dell’ordine equestre (a cui fu sempre
    riservato il comando del Pretorio). Questo dovette favorire in modo particolare il Sol Invictus Mitra,
    che fece del Pretorio un suo feudo incontrastato fin dagli inizi del secondo secolo.
    Una volta acquisito il controllo del pretorio e dell’esercito, il Sol Invictus Mitra fu in grado di
    mettere le mani anche sulla carica imperiale. Questo avvenne nel 193 d.C., quando Settimio Severo
    fu proclamato imperatore dall’esercito. Nato a Leptis Magna, nel Nord Africa, da una famiglia
    equestre di alti burocrati, egli era certamente un membro mitraico, avendo sposato Giulia Domna,
    sorella di un certo Bassiano, sacerdote del Sole Invitto. Da allora in poi la carica imperiale fu
    prerogativa del Sol Invictus Mitra e tutti gli imperatori furono proclamati tali (o rimossi)
    dall’esercito o dalla guardia pretoriana.



    Giudicando in prospettiva, appare evidente che l’obiettivo finale della strategia concepita da
    Giuseppe Flavio era la completa sostituzione della classe dirigente dell’impero romano con membri
    del Sol Invictus Mitra. Questo obiettivo fu conseguito in meno di due secoli, grazie alla politica
    messa in atto dagli imperatori mitraici.



    I ranghi dell’amministrazione imperiale romana provenivano quasi totalmente da nuove
    famiglie di origine ignota, che erano emerse nel corso del primo secolo e agli inizi del secondo, in
    antagonismo all’aristocrazia senatoriale, tradizionalmente contrapposta al potere dell’imperatore.
    Questo gruppo di famiglie formavano il cosiddetto ordine equestre, che ben presto divenne un feudo
    incontrastato del Sol Invictus Mitra. Certamente la maggior parte delle famiglie dei 15 alti sacerdoti
    del seguito di Giuseppe Flavio, ricchi, con ottime relazioni interpersonali e forti del favore
    imperiale, dovettero confluire in questo ordine.




    Gli imperatori mitraici provenivano tutti dall’ordine equestre e governarono in aperta
    opposizione al senato, umiliandolo, privandolo delle proprie prerogative e beni materiali e
    colpendolo fisicamente con l’esilio e la condanna capitale di un gran numero dei suoi membri più
    eminenti, tanto che nel corso del terzo secolo buona parte delle antiche famiglie senatoriali
    scomparvero dalla scena. Contemporaneamente essi cominciarono ad immettere nel senato un gran
    numero di famiglie equestri. Questa politica era stata iniziata da Settimio Severo e sviluppata da
    Gallieno (il quale, è bene ricordarlo, fu anche l’autore del primo editto di tolleranza nei confronti
    del Cristianesimo), che stabilì per decreto che tutti coloro che avevano ricoperto la carica di
    governatori di provincia o di prefetto del pretorio, incarichi riservati entrambi all’ordine equestre,
    entrassero di diritto a far parte del senato. Questo diritto fu poi esteso ad altre categorie di
    funzionari, grandi burocrati ed alti ufficiali dell’esercito (tutti membri dell’organizzazione mitraica,
    dobbiamo supporre). Il risultato finale fu che nel giro di alcuni decenni praticamente l’intera classe
    equestre transitò nei ranghi del senato, soppiantando le famiglie della originaria aristocrazia romana
    ed italica.





    Nel frattempo la diffusione del cristianesimo attraverso l’impero procedeva speditamente.
    Ovunque arrivassero i rappresentanti di Mitra, lì immediatamente sorgeva una comunità cristiana.
    Alla fine del secondo secolo si contavano almeno quattro sedi episcopali in Britannia, sedici in
    Gallia ed altrettante in Spagna e praticamente una in ogni grande città del Nord Africa e del Medio
    Oriente. Nel 261 il Cristianesimo fu riconosciuto come religione lecita dal mitraico Gallieno e
    mezzo secolo dopo fu proclamata religione ufficiale dell’impero dal mitraico Costantino, sebbene
    fosse ancora largamente minoritaria nella società romana (i cristiani erano allora assai meno del
    20% dell’intera popolazione). Da quel momento in poi fu gradualmente imposta alla popolazione
    dell’impero, con una serie di misure che culminarono, alla fine del quarto secolo, con l’abolizione
    delle religioni pagane e la “conversione” in massa del senato romano.



    La situazione finale per quanto concerne le classi dirigenti dell’impero occidentale era allora la
    seguente: l’antica nobiltà di origine pagana era virtualmente scomparsa e la nuova nobiltà
    senatoriale, che si identificava con la classe dei grandi proprietari terrieri, era costituita in gran parte
    da ex membri del Sol Invictus Mitra. Sul piano religioso il paganesimo era stato completamente
    eliminato ed il cristianesimo era divenuto la religione di tutti gli abitanti dell’impero. Esso era
    controllato da gerarchie ecclesiastiche che provenivano quasi interamente dalla classe senatoriale ed
    erano dotate di immense proprietà fondiarie (fra l’altro esenti da tasse) e di poteri quasi reali
    nell’ambito delle proprie diocesi.



    Le famiglie sacerdotali erano diventate padrone assolute di quello stesso impero che aveva
    distrutto Israele ed il tempio di Gerusalemme. Tutte le alte cariche dell’impero, sia civili che
    religiose, e tutta la sua ricchezza erano nelle loro mani, e la carica suprema, quella dell’imperatore,
    era stata assegnata in perpetuo, per diritto divino, alla più illustre delle tribù sacerdotali, la “Gens
    Flavia” (da Costantino in poi, infatti, tutti gli imperatori romani o pretendenti tali, nessuno escluso,
    avevano il prenome Flavio), verosimilmente discendente dallo stesso Giuseppe Flavio.





    Tre secoli prima Giuseppe aveva scritto con orgoglio:
    “La mia famiglia non è oscura, anzi è di discendenza sacerdotale; come presso ciascun popolo
    esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma
    nell’appartenenza all’ordine sacerdotale” (Vita 1,1).
    Alla fine del quarto secolo i suoi discendenti potevano applicare con pieno diritto quelle stesse
    parole all’impero romano.


    A quel punto l’istituzione del Sol Invictus Mitra non era più necessaria per assicurare le fortune
    della famiglia sacerdotale e fu liquidata. Era stata lo strumento della cospirazione più di successo
    dell’intera Storia.






    20118541011_A2

  11. .
    Consiglio a tutti quelli che vogliono affrontare seriamente l' argomento di leggere , e studiare questo post .

    Su wiki , e sul net, l' argomento è spesso affrontato molto confusamente .

    wiki mithra e cristo è una delle più infami ciofeche del net ,

    qui una mia critica

    www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=11076&whichpage=1



    zio ot :B):




    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""








    Salvo questo ottimo studio , di cui non conosciamo l' autore .



    http://episophia.files.wordpress.com/2012/...galilee_nxs.pdf




    MITRAISMO E CRISTIANESIMO

    LA COSPIRAZIONE PIU’ DI SUCCESSO DELL’INTERA STORIA UMANA






    Vicisti Galilee!


    Una ben nota tradizione cristiana narra che l’imperatore Giuliano, colpito da una lancia persiana
    e sbalzato a terra dalla groppa del suo cavallo, prima di esalare l’ultimo respiro sollevò una mano al
    cielo in un gesto di rabbia e di sfida, gridando: “Vicisti Galilee!”.


    Si tratta di una tradizione fantasiosa, che non ha nulla a che vedere con i fatti come si sono
    realmente svolti, creata da un cristianesimo che voleva accreditare l’immagine di un imperatore
    impegnato in una titanica lotta contro Cristo, il “Galileo”, uscendone alla fine sconfitto. Una
    tradizione fantasiosa creata per supportare un’immagine storicamente infondata. Ed anche il
    concetto che questa immagine vuole trasmettere, e cioè che gli ideali per cui Giuliano si era
    adoperato e battuto nel corso del suo breve regno fossero usciti definitivamente sconfitti, è tutt’altro
    che sostenibile. Meno di trent’anni dopo, infatti, quegli ideali trovarono pratica attuazione per opera
    dello stesso cristianesimo trionfante.



    Giuliano è passato alla storia con l’epiteto di “Apostata”, non del tutto appropriato, in quanto
    egli non era mai stato battezzato, anche se possedeva una conoscenza molto approfondita della
    religione cristiana, al punto da discutere con cognizione di causa sulle sue incongruenze, citando a
    memoria lunghi passi della Bibbia. Le sue critiche al cristianesimo, però, erano puramente
    filosofiche e dottrinali; egli non perseguitò mai la Chiesa, ed anzi proibì espressamente e condannò
    con fermezza ogni forma di violenza contro i cristiani.



    Gli storici moderni lo hanno definito l’ultimo imperatore “pagano”, per gli sforzi che profuse
    nel rivitalizzare e moralizzare i più noti culti pagani dell’antichità. Ma questo non gli impedì di far
    completare la chiesa di Santa Costanza, a Roma, per farvi seppellire la propria moglie Elena, e di
    essere sepolto lui stesso nella basilica dei dodici Apostoli, a Costantinopoli. Né gli impedì di
    ordinare la ricostruzione del tempio ebraico di Gerusalemme (i lavori, in effetti, furono iniziati, ma
    interrotti subito dopo, a quanto si dice a causa di un terremoto).



    In realtà Giuliano non era né cristiano, né propriamente pagano; era un adepto del Sol Invictus
    Mitra, come prima di lui suo zio Costantino il Grande e come la maggior parte dei senatori romani
    del suo tempo.


    Sul mitraismo sono state scritte, soprattutto nell’ultimo secolo, una enorme quantità di opere,
    che però ne forniscono un’immagine del tutto irreale ed estremamente confusa e contraddittoria. La
    confusione nasce dal fatto che tutti gli storici moderni lo considerano una vera e propria religione,
    La convinzione che il Sol Invictus Mitra fosse una religione si è consolidata con lo storico
    Cummont, che alla fine del 19.mo secolo ha scritto quella che da allora è ritenuta l’opera
    fondamentale sul mitraismo, partendo dal presupposto esplicito, vero e proprio postulato privo di
    qualsivoglia supporto bibliografico o archeologico, che esso fosse stato importato dalla Persia da un
    qualche ignoto legionario romano. Ed infatti il Cummont dedica buona parte della sua opera a
    descrivere la religione solare persiana e le sue varie diramazioni e filiazioni orientali, come il
    Mazdeismo, il Magismo e così via.



    Uno dei maggiori studiosi moderni del mitraismo, M.J. Vermaseren, condivide l’impostazione
    di Cummont, ma avverte: “Gli studiosi dei misteri di Mitra si trovano di fronte ad una difficoltà
    insormontabile e cioè: per quanto riguarda la forma persiana del mitraismo esistono soltanto
    evidenze letterarie, mentre il Mitra del mondo romano ci è noto quasi esclusivamente attraverso
    fonti non letterarie, archeologiche. Franz Cummont, quel brillante studioso morto nel 1947, ha
    chiaramente descritto questa situazione nel suo libro Die Mysterien des Mithra: ‘E’ come se, egli
    scrive, volessimo studiare il cristianesimo avendo a disposizione soltanto il Vecchio Testamento e le
    cattedrali medioevali’. A causa di questo enorme divario fra le fonti di informazione, la storia di
    Mitra è destinata a rimanere per sempre incompleta e distorta.”



    In altre parole, abbiamo da una parte una religione persiana di Mitra, sulla quale esiste una
    abbondante letteratura, ma nessun resto archeologico, o quasi; dal lato romano, invece, abbiamo
    centinaia di mitrei ed altre testimonianze archeologiche relative a Mitra, ma pochissime
    testimonianze letterarie sull’argomento, nessuna delle quali proveniente dall’interno stesso
    dell’organizzazione, e cioè da uno dei suoi membri. Il problema nasce appunto dal fatto che
    Cummont ha postulando fin dall’inizio della sua ricerca, senza mai dimostrarlo, che il culto di Mitra
    quale veniva professato nell’impero romano fosse la fotocopia della religione persiana.



    Questo postulato è stato accettato acriticamente da quasi tutti gli studiosi successivi, che si sono
    in maggioranza dedicati ad interpretare le evidenze archeologiche romane alla luce della letteratura
    persiana. ad approfondire i vari aspetti del magismo persiano, o a ricostruire gli aspetti esoterici ed
    astrologici del mitraismo romano, basandosi sulle scarne notizie fatte filtrare dalle fonti antiche ed
    integrandole arbitrariamente con elementi presi a prestito dalle fonti orientali e dalla mitologia
    greco-romana, per cercare di ricostruire in qualche modo contenuti e significati dei vari gradi
    iniziatici in cui l’istituzione mitraica era suddivisa. Ne risulta un quadro complessivo irreale, in
    stridente contrasto con quella che appare essere la realtà storica ed archeologica di questa
    istituzione.



    In realtà se c’è una cosa che appare con assoluta evidenza da tutto il materiale disponibile è che
    il cosiddetto culto di Mitra, a Roma, non era una religione, ma una confraternita di iniziati, divisa in
    vari livelli di iniziazione, che dalla religione orientale aveva preso a prestito soltanto il nome ed
    alcune simbologie esteriori. Quanto ai contenuti, scopi e modi operativi, niente accomuna il Mitra
    persiano e quello romano. L’istituzione mitraica romana in nessun modo può essere definita come
    una religione dedita al culto del sole. Sarebbe come dire che la massoneria moderna è una religione
    dedita al culto del Grande Architetto dell’Universo.



    Il paragone con la massoneria aiuta a capire che genere di istituzione fosse quella mitraica. Si
    tratta, infatti, di istituzioni sostanzialmente simili negli aspetti essenziali. Agli adepti della
    massoneria non viene richiesto di professare una particolare religione, ma soltanto di credere
    nell’esistenza di un’Entità superiore, comunque definita. Questa entità viene rappresentata nei
    templi massonici (che per inciso hanno straordinari punti di similitudine con i mitrei romani, e sono
    popolati di divinità pagane, come Ercole, Minerva e Venere) con un sole inserito in un triangolo e
    con il nome di Grande Architetto dell’Universo, che, guarda caso, è lo stesso che i pitagorici
    attribuivano al Sole. Nei templi vengono effettuati cerimoniali e rituali di iniziazione e di
    apertura/chiusura “lavori”, mai, però, a carattere religioso. La religione è espressamente bandita dai
    templi massonici ed ogni adepto, nella sua vita privata, è libero di professare il credo che più gli
    aggrada.



    Che ci sia una qualche connessione fra mitraismo e massoneria è tutt’altro che improbabile, dal
    momento che ci sono profonde similitudini nell’architettura e nelle decorazioni dei rispettivi templi,
    nei simbolismi, nei rituali e così via; ma non è materia che possa essere trattata in questa sede. Il
    paragone è stato introdotto al solo scopo di far capire quale tipo di istituzione fosse il mitraismo, che
    non era una religione dedita al culto di una qualche specifica divinità, ma una associazione segreta
    di mutua assistenza, i cui membri, nella loro vita pubblica, erano liberi di venerare qualsiasi divinità.
    E’ l’unica chiave di lettura che consenta di capire e conciliare le innumerevoli contraddizioni ed
    incongruenze, cui ci si trova confrontati quando si voglia intendere il mitraismo come una religione.
    Che il mitraismo non fosse una vera e propria religione è provato anche, come vedremo in
    seguito, dalle attività in campo religioso dei suoi adepti, fra cui lo stesso Giuliano. Egli fece
    costruire un mitreo nel suo palazzo, ma non vedeva nessuna delle divinità venerate nell’impero
    come “concorrente” di Mitra; si adoperò anzi in ogni modo perché tutte avessero pari dignità e
    rispetto. Questo era assolutamente tipico della filosofia dell’organizzazione mitraica, come viene
    spiegato approfonditamente nell’opera “Saturnalia”, composta intorno al 430 (ben dopo l’abolizione
    del paganesimo, quindi) dall’eminente scrittore Macrobio, supposto pagano.



    In essa il senatore
    2
    Pretestato, Pater Patrum del culto mitraico (la massima carica dell’organizzazione), in amabile
    conversazione con i grandi senatori mitraici Simmaco e Nicomaco Flaviano, si dilunga a spiegare
    come tutte le divinità pagane non siano altro che diverse manifestazioni, o anche diverse
    denominazioni, di un unico Ente superiore, rappresentato dal Sole, il Grande Architetto
    dell’Universo. “Paganesimo monoteista” l’ha definito qualcuno, mentre altri parlano genericamente
    di sincretismo religioso. In effetti tutte le religioni avevano pari dignità nei mitrei, dove
    comparivano le immagini delle principali divinità pagane ed i cui adepti si professavano
    pubblicamente devoti alle più disparate divinità, ivi comprese quella cristiana ed ebraica.
    In quanto mitraico, Giuliano condivideva questa filosofia. Il grande ideale che egli sognò di
    realizzare era perfettamente in linea con la filosofia sincretistica e tollerante del Sol Invictus Mitra.




    Egli progettò, infatti, di fondere tutte le confessioni dell’impero in un’unica super religione, retta da
    una casta sacerdotale e da una liturgia sincretistica unificate.
    Egli cominciò con il richiamare dall’esilio e reinsediare nelle loro sedi i vescovi ortodossi
    allontanati dal suo predecessore, l’ariano Costanzo; ma contemporaneamente pubblicò un editto di
    restituzione dei beni e della libertà di culto per il paganesimo. Poi si dedicò alla riorganizzazione
    delle gerarchie dei sacerdoti pagani, sul modello dell’organizzazione sacerdotale cristiana. Per ogni
    provincia creò un gran sacerdote, non solo per il culto imperiale, ma anche per il complesso di tutti i
    culti tributati agli dei, compreso quello cristiano. Di questi provvedimenti sono state tramandate
    varie lettere di Giuliano, che appaiono quasi delle vere e proprie encicliche, o lettere pastorali. In
    esse l’imperatore si occupava di reclutamenti, consuetudini di vita, formazione e trattamento
    economico dei sacerdoti, del servizio divino, che doveva essere tenuto tre volte al giorno, della
    fondazione di case per le vergini dedite alla vita ascetica (conventi, in pratica), e di ospizi. Inoltre
    Giuliano fece redigere opuscoli informativi per sacerdoti e libri di istruzione per l’insegnamento
    religioso.




    Questo era il grande progetto di Giuliano che, stando all’anonimo estensore cristiano della
    leggenda sulla sua morte, sarebbe stato sconfitto dal “Galileo”, per mezzo di una lancia persiana.
    Questo stesso progetto trovò invece pratica attuazione 27 anni dopo la morte di Giuliano, ad opera
    dell’imperatore Teodosio che nel 392 emanò un decreto che aboliva ufficialmente il paganesimo ed
    imponeva a tutti i sudditi dell’impero di professare la religione cristiana di Roma. Dobbiamo
    concludere che il “Galileo” abbia trionfato, dunque? Sembrerebbe proprio di si. Ma a ben guardare
    la religione che viene professata in suo nome assomiglia in modo impressionante a quella super
    religione vagheggiata da Giuliano, che doveva unificare tutti i culti professati nell’impero.
    Anche l’ideale di Giuliano, quindi, alla fine ha trionfato. Quello che era risultato perdente (ma
    forse la storia sarebbe andata diversamente, se l’ultimo imperatore “pagano” avesse avuto più
    tempo) era soltanto il metodo attraverso cui egli si illudeva di poter realizzare quell’ideale, e cioè
    attraverso la tolleranza reciproca. Teodosio, invece, aveva capito che l’unico modo per arrivarci era
    l’intolleranza. I templi pagani vennero chiusi o distrutti ed ogni forma di culto pagano proibita; ma
    simboli, rituali, usanze, festività ed in molti casi anche lo stesso clero vennero assorbiti in toto nel
    cristianesimo.




    La religione cristiana si autoproclama monoteista, ma al di là delle dichiarazioni di principio
    non è più monoteista di quanto lo fosse il mitraismo. L’Ente Supremo, infatti, è costituito in realtà
    da una Trinità, costituita da un Dio Padre, eterno, onnipotente, onnipresente, creatore di tutte le
    cose; dal suo Figlio unigenito, che ha iniziato ad esistere incarnandosi nel ventre di una donna, per
    opera di un terzo elemento, non ben definito, lo Spirito Santo. Una cosa che riflette in maniera
    lampante la concezione pagana, è il fatto che il Figlio è salito al “cielo” con il suo stesso corpo
    umano, e si trova lì da qualche parte in carne ed ossa. Non può sfuggire la similitudine con la
    concezione mitraica di un ente supremo, rappresentato dal sole e dal suo inviato in terra Mitra,
    incarnatosi anch’egli in una donna e salito al cielo dopo aver compiuto la sua missione.
    Al di sotto di questa Trinità c’è poi tutta una pletora di vere e proprie “divinità” minori, fra cui
    primeggia in modo assoluto la Madonna, le quali hanno sostituito a tutti gli effetti altrettante
    divinità pagane, di cui hanno spesso assorbito simbolismi e funzioni.



    Alla Madonna e ai santi
    3
    vengono erette chiese e santuari e la maggior parte dei fedeli si rivolgono direttamente ad essi, non
    certo all’Ente Supremo, per ottenere grazie e favori, allo stesso modo in cui i fedeli pagani si
    rivolgevano alle varie divinità minori perché intercedessero presso il padre degli dèi. Ogni categoria
    umana, nel paganesimo, aveva una sua divinità protettrice, come ogni categoria umana, nel
    cristianesimo, ha un suo santo protettore.



    Il Cristianesimo ha poi ereditato in massa simboli e festività tipiche del mitraismo. Il giorno
    sacro al sole è diventato la domenica, sacra al Signore. Il Natalis Solis Invicti è diventato il Natale
    di Gesù. Il simbolo del sole è onnipresente in tutte le chiese cattoliche (basti pensare all’ostensorio)
    e nelle immagini di Dio e dei santi, al punto che se un ipotetico archeologo venuto da un altro
    mondo dovesse giudicare il cristianesimo soltanto dalle immagini e simbolismi che compaiono nelle
    chiese, dovrebbe forzatamente concludere che si tratta di una religione dedita al culto del sole. Si
    tratta, in ogni caso, soltanto di immagini esteriori, perché a livello dottrinale e liturgico ha integrato
    un gran numero di elementi giudaici.



    In conclusione, il cristianesimo ha incorporato, rielaborandoli ed armonizzandoli in una cornice
    dottrinale unitaria, sincretistica, gli elementi essenziali delle maggiori religioni professate
    nell’impero romano, realizzando così, per altra via, il sogno di Giuliano.



    Chi ha vinto, dunque, Giuliano o il “Galileo”? La risposta non può essere che una sola:
    entrambi. Vedremo fra poco, infatti, che mitraismo e cristianesimo non erano nemici giurati e
    neppure antagonisti, come ritenuto da molti storici. Erano due facce di una stessa medaglia,
    entrambi funzionali allo stesso scopo e cioè al successo della più grande, ardita e fortunata
    cospirazione dell’intera storia umana.




    Mitra e Gesù, due facce della stessa medaglia






    Nel 384 d.C. moriva a Roma il senatore Vettio Agorio Pretestato, ultimo papa (acronimo di
    pater patrum) di quello che impropriamente viene definito “culto” di Mitra.
    Il suo nome e le sue varie cariche religiose e politiche sono incisi sul basamento della facciata
    della Basilica di San Pietro, in Vaticano, insieme ad una lunga lista di altri senatori romani, stilata
    fra il 305 ed il 390. La cosa che li accomuna è che sono tutti patres mitraici; e ben nove di essi
    rivestono il titolo supremo di Pater Patrum, a riprova del fatto che era qui, nel Vaticano, che si
    trovava la sede del capo supremo dell’organizzazione mitraica, fianco a fianco, se non addirittura
    l’una dentro l’altra, con la Basilica fatta erigere nel 320 dall’imperatore Costantino.
    Per quasi settant’anni i capi supremi di due “religioni” che si è sempre voluto far apparire
    concorrenti ed in aspro conflitto fra loro, hanno convissuto pacificamente ed in perfetta armonia
    nella stessa sede. Quanto fosse pacifica la convivenza è provato dal fatto che fu lo stesso Pretestato,
    nel 367, in qualità di Prefetto dell’Urbe, a confermare sul trono di Pietro il vescovo Damaso.
    Pretestato affermava che avrebbe volentieri accettato di farsi battezzare, se gli avessero offerto
    la cattedra di Pietro. Quel che successe alla sua morte, invece, fu esattamente il contrario. Il titolo di
    Pater Patrum ricadde (oggi si direbbe per default) sul vescovo Siricio, che fu il primo nella storia
    della Chiesa ad assumere l’appellativo di “papa”. Ed insieme ad esso anche tutta una serie di altre
    prerogative, titoli, simbologie e beni materiali passarono in massa dal mitraismo al cristianesimo.
    Per capire quello che appare come un vero e proprio “passaggio di consegne” fra il papa
    mitraico e quello cristiano, bisogna risalire all’anno prima. Nel 383, infatti, il senato romano aveva
    votato a stragrande maggioranza l’abolizione del paganesimo nell’impero d’occidente. Un voto che
    ha lasciato perplessi gli storici, che si sono spesso domandati se fosse dovuto a intimidazioni
    esercitate dall’imperatore Teodosio o a che altro.
    E’ opinione comune fra di essi, infatti, che il senato romano fosse a quell’epoca in maggioranza
    pagano. Anzi, si trova spesso scritto che proprio il senato costituiva l’ultima roccaforte di resistenza
    del paganesimo contro il cristianesimo trionfante. Un’opinione che contrasta in modo stridente con
    ripetute dichiarazioni di San Ambrogio, il quale in quegli stessi anni affermava che i cristiani erano
    4
    in maggioranza nel senato; affermazioni cui gli storici non hanno mai dato alcun credito, ritenendole
    inattendibili. Chi ha ragione, Ambrogio o gli storici moderni?
    Certamente dobbiamo ritenere del tutto inverosimile che il vescovo di Milano, che apparteneva
    ad una grande famiglia senatoriale e seguiva attentamente le questioni romane, si sbagliasse su una
    questione del genere. D’altro canto, però, non possiamo neppure biasimare gli storici, dal momento
    che prove documentali ed archeologiche confermano che la grande maggioranza dei senatori romani
    erano allora “patres” del Sol Invictus Mitra, e quindi, secondo l’opinione universalmente accettata,
    dichiaratamente pagani.
    Quello che nessuno storico ha mai capito, però, o meglio non ha mai voluto capire nonostante
    numerose evidenze storiche, è che le due condizioni, di adepto del mitraismo e di cristiano (non
    battezzato), non erano affatto incompatibili.
    L’esempio più lampante è costituito dall’imperatore Costantino, ma se ne potrebbe compilare
    una sostanziosa lista. Costantino era adepto del Sol Invictus Mitra e mai lo rinnegò, anche quando si
    proclamava “servo di Dio” e affermava di essere “il vescovo costituito da Dio per l’umanità fuori
    dalla Chiesa”. Il suo biografo Eusebio lo definisce addirittura “il novello Mosé” e “una sorta di
    vescovo universale”. Ma Costantino si fece battezzare solo in punto di morte, continuò per anni a
    battere monete con simboli mitraici da un lato, cristiani dall’altro e innalzò a Costantinopoli una
    statua colossale di se stesso, con simboli mitraici.
    D’altra parte gli stessi senatori mitraici avevano in maggioranza mogli e figlie cristiane, come
    testimoniato, fra gli altri, da San Girolamo. Un esempio illustre è quello di San Ambrogio, ritenuto
    dagli storici inizialmente pagano, figlio di un pagano mitraico, il prefetto delle Gallie Ambrogio,
    nonostante non ci sia alcun dubbio che la sua famiglia fosse cristiana e vivesse in ambiente
    profondamente cristiano. Da bambino, infatti, Ambrogio amava giocare a fare il vescovo e nel 353
    sua sorella Marcellina ricevette il velo delle vergini consacrate dal papa Liberio in persona, nella
    basilica di San Pietro. Formalmente, però, egli rimase “pagano” fino al momento stesso in cui fu
    designato vescovo di Milano; fu battezzato, infatti, soltanto quindici giorni prima di essere
    consacrato vescovo.
    Il fatto è che a quell’epoca i cristiani destinati alla carriera politica (Ambrogio era governatore
    del Nord Italia al momento della nomina a vescovo) erano battezzati soltanto in punto di morte,
    oppure quando, per una qualche ragione, decidevano di abbracciare la carriera ecclesiastica. Era la
    prassi, allora. Il senatore Nectarius, per esempio, che era stato designato vescovo di Antiochia dal
    concilio di Costantinopoli del 381, fu costretto a posporre la cerimonia della sua consacrazione
    perché dovette prima provvedere a quella del proprio battesimo.
    Subito dopo il voto di abolizione del paganesimo, i senatori romani abbracciarono in massa la
    fede cristiana (pur continuando a mantenere, in molti casi, mitrei privati), a cominciare da quel
    Simmaco, pater mitraico, che è passato alla storia per la sua strenua quanto vana difesa della
    tradizione “pagana”, di fronte all’imperatore Valentiniano. Pochi anni dopo, infatti, il cristianissimo
    imperatore Teodosio, fanatico persecutore di ogni eresia e residuo pagano, lo gratificò elevandolo
    agli onori del consolato.
    E’ possibile, ci si chiederà, che una persona potesse aderire contemporaneamente a due diverse
    religioni? Qui sta il punto essenziale. Si è già visto come, per un evidente quanto incredibile
    equivoco (ma forse non si sbaglierebbe di molto se si parlasse di deliberata mistificazione), il
    cosiddetto “culto” del Sol Invictus Mithra , è sempre stato ritenuto una “religione”, sorta in parallelo
    al cristianesimo e in concorrenza con esso. C’è addirittura chi ritiene che questa “religione” fosse
    talmente radicata e diffusa nella società romana, che soltanto per un soffio perse la gara con il
    cristianesimo. Più moderatamente, il Renan affermava che se per un qualche accidente il
    cristianesimo fosse abortito nel corso del quarto secolo, il mondo sarebbe stato mitraico.
    E’ un chiaro riconoscimento del potere e del capillare controllo che l’organizzazione mitraica
    aveva conseguito nel corso del quarto secolo sull’intera società romana. Organizzazione segreta di
    tipo esoterico, non certo religione. Nonostante il parere del Renan, infatti, non si riesce proprio ad
    immaginare in che cosa potesse consistere una “religione” mitraica romana, dal momento che gli
    5
    adepti dell’organizzazione si proclamavano pubblicamente fedeli o sostenitori di un gran numero di
    altre divinità, che comprendevano praticamente l’intero olimpo pagano.
    La maggioranza degli storici concordano sul fatto che gli adepti mitraici erano, a modo loro,
    monoteisti. Quello che dimenticano di sottolineare è che, grazie alla loro particolare filosofia
    sincretistica, essi “infiltrarono” e si impadronirono del culto (e delle relative prebende) di tutte le
    divinità pagane.
    Infatti tutte le “grotte” mitraiche ospitavano (esattamente come i templi massonici moderni) una
    schiera di divinità pagane, come Saturno, Atena, Venere, Eercole e così via e gli adepti di Mitra (che
    fra l’altro erano esclusivamente uomini, essendo le donne categoricamente escluse
    dall’organizzazione) nella loro vita pubblica esercitavano la funzione di sacerdoti al servizio non
    soltanto del Sole, che era venerato in templi pubblici ben distinti dai mitrei (che erano invece
    minuscoli vani sotterranei accessibili solo agli adepti, i quali vi tenevano riunioni ammantate dal più
    stretto segreto), ma anche di altre divinità romane.
    Questo è provato al di là di ogni possibile dubbio proprio dalle iscrizioni che si trovano sul
    basamento della Basilica di S. Pietro. Scorrendo la lista dei senatori ivi elencati, infatti, si scopre
    che, oltre al titolo di “patres” del Sol Invictus Mitra, essi ricoprivano anche una lunga serie di
    cariche nel culto di altre divinità, come sacerdos, hieroceryx, hierophanta e archibucolus di Bronto
    o di Ecate, Iside e Libero, maior augur, quindecimvir sacris faciundis e per finire anche pontifex di
    vari culti pagani, e naturalmente erano responsabili del collegio delle vestali e del sacro fuoco di
    Vesta. Non c’era nel Senato alcuna manifestazione di culto legato alla tradizione pagana che non
    venisse celebrata da un senatore mitraico. E quello stesso senatore, il più delle volte, aveva alle
    spalle una famiglia profondamente cristiana. Ed in ogni caso abbracciò immediatamente il
    cristianesimo non appena il paganesimo fu abolito.
    Sorge allora spontanea una domanda: i senatori mitraici erano soltanto pagani o anche cristiani?
    Su questo punto le evidenze in nostro possesso sono piuttosto ambigue. Anche il carattere dello
    stesso Mitra, come viene dipinto dagli scrittori cristiani, è assolutamente ambiguo. Fra lui e Gesù
    esiste una lunga serie di analogie: Mitra era nato in una stalla, il 25 Dicembre, da una madre
    vergine, circondato da pastori che portavano doni. Era venerato nel giorno dedicato al sole, la
    domenica. Attorno alla testa aveva un’aureola. Celebrò un’ultima cena insieme ai suoi seguaci più
    fedeli, prima di far ritorno al a suo padre. Si diceva che non fosse morto, ma che fosse asceso al
    cielo, da dove sarebbe tornato alla fine del mondo, per resuscitare i morti e giudicarli, mandando i
    buoni in paradiso e i cattivi all’inferno. Garantiva ai suoi fedeli l’immortalità, conseguita attraverso
    il battesimo.
    Gli adepti di Mitra, quindi, credevano come i cristiani nell’immortalità dell’anima, nel giudizio
    universale, nella resurrezione dei morti e nella fine del mondo. Celebravano la morte di un salvatore
    che era risorto una domenica. Celebravano una cerimonia analoga alla Messa cristiana, durante la
    quale consumavano pane consacrato e vino in memoria dell’ultima cena di Mitra. E durante la
    cerimonia cantavano inni, suonavano campanelli, accendevano ceri e usavano acqua consacrata.
    Essi condividevano con i cristiani una lunga serie di altre credenze e pratiche rituali, al punto da
    essere praticamente indistinguibili da essi, agli occhi dei pagani ed anche di molti cristiani
    L’esistenza di una sotterranea connessione tra il cristianesimo ed il mitraismo fin dai primi
    tempi è ammessa anche dai padri della Chiesa. Tertulliano scrive che i pagani “…credono che il Dio
    dei cristiani è il Sole, perché è noto che noi preghiamo rivolti verso il sole nascente e che nel giorno
    del sole facciamo festa (Tertulliano, Ad Nationes, 1, 13). Egli cerca di giustificare la sostanziale
    identità fra le due “religioni” agli occhi dei fedeli cristiani, attribuendola al fatto che satana avrebbe
    plagiato i rituali più sacri e le credenze della religione cristiana. Costantino credeva che Gesù Cristo
    ed il Solo Invictus Mitra fossero entrambi aspetti della stessa divinità superiore. Certamente egli non
    era il solo a nutrire questa convinzione. I neoplatonici sostenevano che il mitraismo rappresentava
    un “ponte” fra paganesimo e cristianesimo. Gesù era spesso chiamato con il nome Sol Iustitiae ed
    era rappresentato con statue aventi le sembianze del giovane Apollo (curiosamente anche
    Michelangelo, nel grandioso affresco del Giudizio Universale della cappella Sistina, ha
    6
    rappresentato Gesù con il volto dell’Apollo del Belvedere). Clemente di Alessandria descrive Gesù
    alla guida del carro del sole attraverso il cielo, ed un mosaico del quarto secolo, in Vaticano, lo
    mostra sul carro del sole, mentre ascende al cielo. Su alcune monete del quarto secolo lo stendardo
    cristiano riporta la scritta “Sol Invictus”. Un larga parte della popolazione romana pensava che il
    Cristianesimo ed il culto del sole fossero intimamente collegati, se non proprio la stessa cosa.
    Anche dopo l’abolizione del paganesimo, i romani continuarono a lungo a venerare entrambi, sia
    Cristo che il Sole. Nel 410 d.C. papa Innocenzo autorizzò la ripresa di cerimonie in onore del sole,
    sperando in questo modo di scongiurare il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. E ancora
    nel 460 papa Leone il Grande scriveva: “… molti cristiani, prima di entrare nella basilica di San
    Pietro, si rivolgono verso il sole e si inchinano in suo onore”. Il vescovo di Troy continuò a
    professare apertamente il culto del sole anche durante il suo episcopato. Un altro notevole esempio
    in questo senso è dato da Sinesio di Cirene, un discepolo della famosa filosofa neoplatonica Ipazia,
    che fu trucidata nel 415 ad Alessandria d’Egitto. Sinesio, non ancora battezzato, fu eletto vescovo di
    Tolemaide e vescovo metropolitano di Cirenaica, ma accettò la carica soltanto a condizione di non
    dover ritrattare le sue convinzioni neoplatoniche o rinunciare al culto del sole. Ancor oggi il simbolo
    del sole è universalmente presente in tutte le chiese ed in tutti gli oggetti di culto cristiani.
    Alla luce di questi fatti come dobbiamo considerare la posizione dell’istituzione mitraica nei
    confronti del cristianesimo? Erano concorrenti o cooperatori? Amici o nemici? Forse la migliore
    indicazione ci è fornita dalle monete che Costantino fece coniare fino al 320 d. C., con simboli
    cristiani su un lato, mitraici sull’altro. E’ possibile che Cristo e Mitra fossero due facce di una stessa
    medaglia?




    Le origini del Mitraismo e del Cristianesimo





    Per spiegare la stretta relazione esistente fra Cristianesimo e Mitraismo dobbiamo risalire alle
    loro origini.
    Per universale consenso, il cristianesimo come noi lo conosciamo è una creazione di San Paolo,
    il fariseo che fu inviato da Gerusalemme a Roma nel 61 circa, dove fondò la prima comunità
    cristiana della capitale. La religione predicata a Roma da Paolo era assai diversa da quella predicata
    da Gesù in Palestina e praticata da Giacomo il Giusto, l’allora capo della comunità cristiana di
    Gerusalemme. La predicazione di Gesù era in linea con il modo di vivere e pensare della setta
    giudaica degli Esseni. I contenuti dottrinali del cristianesimo affermatosi a Roma alla fine del primo
    secolo, invece, sono straordinariamente vicini a quelli della setta dei farisei, a cui Paolo
    apparteneva.



    Paolo fu condannato a morte probabilmente nel 67 da Nerone, insieme alla maggior parte dei
    suoi discepoli. La comunità cristiana di Roma fu decimata dalla persecuzione neroniana. Non
    abbiamo alcuna informazione su quel che accadde in seno a questa comunità nei successivi 30 anni;
    un black out di notizie che lascia alquanto perplessi, perché sappiamo per certo che durante quel
    periodo a Roma dovette succedere qualcosa di molto importante. Infatti, alcuni dei più eminenti
    cittadini della capitale furono convertiti al cristianesimo, come il console Flavio Clemente, cugino
    dell’imperatore Domiziano. Inoltre la chiesa di Roma assunse una struttura monarchica e impose la
    sua leadership su tutte le comunità cristiane dell’impero, che dovettero uniformarsi al modello ed
    alle credenze della chiesa romana. Questo è provato al di là di ogni dubbio da una lunga lettera di
    papa Clemente ai Corinzi, scritta verso la fine del regno di Domiziano, in cui è chiaramente
    affermata la supremazia della Chiesa di Roma.




    Ciò significa che durante gli anni del black out qualcuno che aveva accesso alla famiglia
    imperiale aveva risollevato le sorti della comunità cristiana romana al punto da consentirle di
    imporre la propria autorità su tutte le altre comunità cristiane dell’impero. Ed era “qualcuno” che
    conosceva perfettamente la dottrina ed il pensiero di Paolo, 100% farisaico.
    7
    Anche l’organizzazione mitraica era nata nello stesso periodo e nello stesso ambiente. Data la
    scarsità di informazioni scritte su questo argomento, l’origine e la diffusione del culto di Mitra ci
    sono note quasi esclusivamente grazie ai reperti archeologici (resti di mitrei, scritte dedicatorie,
    iconografie e statue del dio, rilievi, pitture, mosaici ecc.) che sono stati rinvenuti in abbondanza in
    tutto l’impero romano. Queste testimonianze archeologiche provano in maniera praticamente certa
    che, a parte il nome comune, non c’era alcuna relazione fra il culto di Mitra romano e la religione
    orientale da cui si suppone (o meglio si postula) che sia derivato. In tutto il mondo persiano, infatti,
    non è mai stato trovato nulla di simile ad un mitreo romano.
    Quasi tutti i monumenti mitraici rinvenuti possono essere datati con relativa precisione, dal
    momento che vi si trovano iscrizioni dedicatorie. Pertanto, tempi e circostanze della diffusione del
    culto del Sol Invictus Mitra (questi tre nomi compaiono quasi sempre assieme in tutte le iscrizioni,
    pertanto non c’è dubbio che si riferiscono alla stessa ed unica istituzione) ci sono noti con
    ragionevole precisione e certezza. Conosciamo anche il nome, la professione e le responsabilità di
    un gran numero di suoi membri.
    Il primo mitreo di cui si abbia evidenza fu costruito a Roma, al tempo di Domiziano, e ci sono
    precise indicazioni che fosse frequentato da persone vicine alla famiglia imperiale, in particolare
    liberti giudaici. Il mitreo, infatti, fu dedicato da un certo Tito Flavio Igino Efebiano, un liberto
    dell’imperatore Tito Flavio, pertanto quasi certamente un giudeo romanizzato. Da Roma
    l’organizzazione mitraica si diffuse, nel corso del secondo secolo, in tutto l’impero occidentale.
    C’è un terzo avvenimento, accaduto in quello stesso periodo ed in qualche modo collegato alla
    famiglia imperiale ed agli ambienti giudaici, a cui gli storici non hanno mai prestato particolare
    attenzione: l’arrivo a Roma di un importante gruppo di persone, 15 alti sacerdoti giudaici, con le
    loro famiglie e parenti. Appartenevano alla classe sacerdotale che aveva governato Gerusalemme
    per mezzo millennio, fin dal ritorno dall’esilio babilonese, quando 24 famiglie sacerdotali, sotto gli
    auspici di Esdra, avevano stipulato fra loro un accordo e creato un’organizzazione segreta con lo
    scopo di assicurare le proprie fortune, per mezzo della “proprietà” esclusiva del Tempio e
    l’esclusiva amministrazione del sacerdozio.
    La dominazione romana della Giudea era stata segnata da forti tensioni sul piano religioso, che
    avevano provocato una serie di rivolte, l’ultima delle quali, nel 66 d.C., fu fatale per la nazione
    giudaica e per la stessa famiglia sacerdotale. Con la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito
    Flavio, nel 70 d.C., lo strumento principale del potere della famiglia, il Tempio, fu raso al suolo, e
    mai più ricostruito, ed i sacerdoti furono uccisi a migliaia.
    Ci furono dei superstiti, naturalmente, in particolare un gruppo di 15 alti sacerdoti che erano
    passati dalla parte dei romani, consegnando a Tito il tesoro del tempio, e per questa ragione erano
    stati reintegrati nelle loro proprietà e gli era stata concessa la cittadinanza romana. Essi avevano poi
    seguito Tito a Roma, dove apparentemente scomparvero per sempre dalla scena della storia, a parte
    quello che indubbiamente appare come la personalità più forte di quel gruppo, Giuseppe Flavio.
    Giuseppe era un sacerdote che apparteneva alla più illustre delle 24 famiglie sacerdotali
    giudaiche. Al tempo della rivolta contro Roma aveva ricoperto un ruolo di primo piano nelle
    tormentate vicende della Palestina. Inviato dal Sinedrio quale governatore della Galilea, egli era
    stato il primo a combattere contro le legioni del generale romano Tito Flavio Vespasiano, che aveva
    ricevuto da Nerone l’incarico di reprimere la rivolta. Barricato nella fortezza di Jotapata egli
    resistette valorosamente all’assedio delle truppe romane, ma alla fine dovette capitolare. Egli si
    arrese a condizione di poter parlare personalmente con Vespasiano (Guerra Giudaica, III, 8,9). Il
    loro incontro segnò una svolta nelle fortune di entrambi: Vespasiano qualche tempo dopo divenne
    imperatore, mentre Giuseppe non soltanto ebbe salva la vita, ma fu “adottato” nella famiglia
    imperiale ed assunse il nome di Flavio. In seguito ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a
    Roma, una rendita annua a spese dello stato ed enormi proprietà in Palestina. Il prezzo del suo
    tradimento (fu lui, probabilmente, che fornì a Vespasiano i mezzi economici per diventare
    imperatore).
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    I sacerdoti di questo gruppo avevano una cosa in comune fra loro: erano tutti traditori del loro
    popolo e quindi certamente non bene accetti in seno alle comunità giudaiche. Appartenevano tutti,
    però, ad una famiglia dalle tradizioni millenarie, erano legati fra loro dall’organizzazione segreta
    creata a suo tempo da Esdra e possedevano una specializzazione ed una esperienza unica nel gestire
    una religione e governare un paese tramite questa. I poveri resti della comunità cristiana romana,
    sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, offrivano loro una splendida opportunità di mettere a
    frutto la loro millenaria esperienza e le loro notevoli sostanze.
    Non sappiamo nulla della loro attività a Roma, ma ne abbiamo chiare indicazioni attraverso gli
    scritti di Giuseppe Flavio. Dopo alcuni anni, infatti, egli cominciò a scrivere la storia di quegli
    avvenimenti che lo avevano avuto protagonista, con l’intento, a quanto sembra, di giustificare il
    proprio tradimento e quello dei suoi compagni. Era stata la volontà di Dio, egli afferma, che lo
    aveva chiamato a costruire un Tempio Spirituale, al posto di quello materiale distrutto da Tito.
    Queste parole certamente non erano rivolte ad orecchie giudaiche, ma cristiane. La maggior
    parte degli storici sono scettici sul fatto che Giuseppe fosse cristiano, ma ci sono forti elementi che
    lo confermano. In un passo famoso del suo libro “Antichità Giudaiche” (il cosiddetto Testimonium
    Flavianum) egli dichiara di accettare due punti fondamentali, la resurrezione di Cristo e la sua
    identificazione con il messia delle profezie, che sono condizione necessaria e sufficiente, per un
    giudeo del suo tempo, per essere considerato cristiano. Le simpatie cristiane di Giuseppe traspaiono
    inoltre molto chiaramente da altri passi della stessa opera, nei quali egli parla con grande
    ammirazione di Giovanni Battista e del fratello di Gesù, Giacomo.




    Giuseppe Flavio e San Paolo




    Le argomentazioni usate da Giuseppe Flavio per giustificare il proprio tradimento e quello dei
    suoi fratelli, sembrano riecheggiare le parole di San Paolo. I due sembrano essere in sintonia per
    quel che riguarda il loro atteggiamento nei confronti del mondo romano. Paolo considerava suo
    compito liberare la chiesa di Gesù dalle strettoie del giudaismo e dalla dipendenza dal territorio
    palestinese, e di renderla universale, legandola a Roma. Essi sono in sintonia anche su altri punti
    fondamentali, come ad esempio sul fatto che entrambi dichiarano di credere nella dottrina dei
    farisei, che è poi quella che è stata pienamente recepita dalla chiesa di Roma.
    Ci sono sufficienti indicazioni storiche per concludere con certezza che i due si conoscevano ed
    erano legati da una profonda amicizia. Negli Atti degli Apostoli si legge che, dopo essere tornato a
    Gerusalemme, Paolo fu condotto di fronte ai sommi sacerdoti ed al Sinedrio per essere giudicato
    (Atti 22, 30). Egli si difese dicendo:
    “Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della
    speranza nella resurrezione dei morti”. Appena egli ebbe detto ciò scoppiò una disputa tra i
    farisei ed i sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è
    resurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei, invece, professano tutte queste cose. Ne nacque
    allora un grande clamore ed alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi protestavano
    dicendo: “Non troviamo nulla di male in quest’uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse
    parlato davvero?” La disputa si accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse
    linciato da costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e ricondurlo
    nella fortezza.” (Atti, 23; 1-10)
    Giuseppe era un sacerdote di alto rango e a quel tempo si trovava a Gerusalemme; era
    certamente presente a quell’assemblea. Egli aveva aderito alla setta dei farisei all’età di 19 anni,
    pertanto doveva essere fra quei sacerdoti che si alzarono in difesa di Paolo. L’apostolo fu
    consegnato al governatore romano Felice, che lo tenne agli arresti per qualche tempo, fino a che fu
    inviato a Roma, insieme ad altri prigionieri (Atti 27, 1), per essere giudicato dall’imperatore, al
    quale Paolo, in qualità di cittadino romano, si era appellato. A Roma egli passò due anni in prigione
    (Atti, 28,29) prima di essere liberato, nel 63 o 64 d.C.
    9
    Nel sua autobiografia Giuseppe scrive:
    “Tra i venticinque ed i ventisei anni mi imbarcai in un viaggio a Roma, per la seguente
    ragione. Durante il periodo in cui fu governatore della Giudea, Felice aveva mandato alcuni
    sacerdoti a Roma, per giustificarsi di fronte all’imperatore. Io li conoscevo come ottime
    persone, che erano state arrestate su accuse insignificanti. Siccome volevo studiare un piano
    per liberarli … mi imbarcai per Roma” (Vita, 3, 13).
    In qualche modo Giuseppe riuscì a raggiungere Roma, dove strinse amicizia con un certo
    Alituro, un mimo giudeo che era molto apprezzato da Nerone. Tramite Alituro, egli fu presentato a
    Poppea, moglie dell’imperatore, e grazie a lei riuscì a far liberare i sacerdoti suoi amici (Vita 3, 16).
    La coincidenza di date, fatti e persone coinvolte è assoluta, al punto che è impossibile sfuggire alla
    conclusione che Giuseppe venne a Roma, a suo rischio e spese, appositamente per liberare Paolo ed
    i suoi compagni, e che fu proprio grazie al suo intervento che l’apostolo fu rilasciato. Questo
    presuppone che i rapporti fra i due fossero molto più stretti che non una semplice conoscenza
    occasionale. Pertanto Giuseppe doveva conoscere del cristianesimo molto più di quanto traspare dai
    suoi scritti, e la sua conoscenza proveniva direttamente dagli insegnamenti di Paolo, di cui era
    verosimilmente un discepolo.
    Quando Giuseppe tornò a Roma al seguito di Tito, nel 70 d.C., il suo maestro era stato
    giustiziato, insieme a una gran parte dei cristiani che lui stesso aveva convertito, la Giudea era sta
    cancellata dal novero delle nazioni, il Tempio distrutto, la famiglia sacerdotale quasi sterminata, e la
    sua stessa reputazione macchiata dall’onta del tradimento. Doveva essere animato da un forte
    risentimento e da un irreprimibile desiderio di rivincita e vendetta. Inoltre doveva sentirsi in carico
    dei destini degli umiliati rimasugli di una delle più grandi famiglie del mondo di allora, i 15 alti
    sacerdoti giudaici che condividevano le sue stesse condizioni. Ci sono indizi secondo cui Giuseppe
    Flavio, senza dubbio la personalità più forte ed autorevole di quel gruppo di persone, presiedette
    una riunione durante la quale quei sacerdoti esaminarono la situazione della famiglia sacerdotale e
    decisero una strategia per risollevare le sue fortune.
    Giuseppe lucidamente concepì un piano che in quelle circostanze sarebbe apparso a chiunque
    assolutamente folle. Quell’uomo, seduto fra le rovine fumanti di quella che era stata la sua patria,
    circondato da pochi sopravvissuti, umiliati e demoralizzati, rifiutati dai loro stessi concittadini,
    progettò nientemeno che di conquistare quell’enorme potentissimo impero che lo aveva sconfitto, e
    di insediare i propri discendenti e quelli degli uomini intorno a lui quale classe dirigente di quello
    stesso impero.
    Il primo passo di questa strategia era di assumere il controllo della neonata religione cristiana e
    trasformarla in una solida base di potere per la famiglia sacerdotale. Quei sacerdoti erano venuti a
    Roma al seguito di Tito, di cui godevano la protezione, ed erano provvisti di grandi mezzi
    economici. Non dovettero incontrare eccessive difficoltà nell’assumere la guida del piccolo gruppo
    di cristiani che erano sopravvissuti alle persecuzioni neroniane, tanto più che erano legittimati dai
    precedenti rapporti di Giuseppe Flavio con Paolo.
    Erano trascorsi soltanto sei anni da quando Giuseppe aveva ottenuto la liberazione di Paolo
    dalla prigione. L’apostolo doveva essere morto da non più di tre anni. Giuseppe deve essersi sentito
    moralmente obbligato a continuare l’opera del suo vecchio maestro, di cui conosceva perfettamente
    la dottrina; rendendosi conto del suo potenziale di propagazione nel mondo romano, si dedicò
    anima e corpo alla sua implementazione pratica, coadiuvato dai sacerdoti superstiti. Una volta
    ricreata una forte comunità cristiana nella capitale, che comprendeva addirittura alcuni membri
    della famiglia imperiale, non dovette essere difficile per quei sacerdoti imporre la propria autorità
    sulle altre comunità cristiane sparse per l’impero, prime fra tutte quelle che erano state create o
    catechizzate dallo stesso Paolo.





    Giuseppe Flavio ed il Sol Invictus Mitra






    Giuseppe Flavio sapeva fin troppo bene che una religione non ha futuro se non entra a far parte
    integrante di un sistema di potere politico. Era un concetto, per così dire, innato nel DNA dei
    sacerdoti di Giuda che religione e potere politico vivono in simbiosi, sostenendosi a vicenda. Non è
    immaginabile che egli pensasse che la nuova religione potesse diffondersi nell’impero
    indipendentemente, o addirittura in contrasto con il potere politico. Il suo obiettivo primario,
    pertanto, dovette essere quello di conquistare il potere politico. Grazie alla millenaria esperienza
    della sua famiglia ed alla sua stessa esperienza di vita, Giuseppe sapeva bene che il potere politico,
    specie in un organismo elefantiaco come l’impero romano, era basato sul potere militare, ed il
    potere militare su quello economico, a sua volta basato sulla capacità di influenzare e controllare le
    leve finanziarie del paese. Nel suo piano egli deve aver programmato che la famiglia sacerdotale
    assumesse prima o poi il controllo di queste leve. Allora l’impero sarebbe stato nelle sue mani e la
    nuova religione sarebbe stato lo strumento per controllarlo.
    Ma qual era il piano di Giuseppe Flavio per realizzare questo ambizioso progetto? Non dovette
    inventare nulla di nuovo. Il modello era già lì, l’organizzazione segreta creata da Esdra al rientro
    dall’esilio babilonese, la quale aveva assicurato alla famiglia sacerdotale giudaica potere e
    prosperità per mezzo millennio. Dovette apportarvi soltanto alcuni ritocchi, per mimetizzare questa
    istituzione nel mondo pagano sotto le sembianze di una religione misterica, dedicata al dio greco
    Helios, il sole, per l’indubbia assonanza con il nome della divinità ebraica El, o El Elyon. Il dio fu
    presentato come invincibile, il Sol Invictus, per galvanizzare lo spirito dei suoi adepti, ed al suo
    fianco fu posto, come inseparabile compagno, una divinità solare di quella stessa Mesopotamia da
    dove gli ebrei avevano avuto origine, Mitra, l’inviato del Sole sulla terra per redimere l’umanità. E
    tutto attorno ad essi, nei mitrei, furono poste le statue di varie divinità pagane, Atena, Ercole,
    Venere e così via. L’insieme era un evidente riferimento a Dio Padre, ed al suo inviato sulla terra
    Gesù, circondati dai loro attributi di saggezza, forza, bellezza e così via, che era chiaramente
    comprensibile ad un cristiano, ma era perfettamente pagano agli occhi di un pagano.
    Questa organizzazione non aveva alcun fine religioso: il suo unico scopo era preservare l’unione
    fra le famiglie sacerdotali e garantire loro sicurezza e prosperità, tramite il mutuo supporto ed una
    strategia comune intesa ad infiltrare tutte le posizioni di potere della società romana. I lavori che
    venivano svolti nei mitrei erano coperti dal più rigoroso segreto. Nonostante l’organizzazione
    mitraica abbia operato per tre secoli ed abbia avuto migliaia di adepti, molti dei quali eminenti
    letterati, non è giunta fino a noi neppure una parola, scritta direttamente da un suo membro, su quel
    che accadeva nel corso delle riunioni mitraiche, quali decisioni venivano prese e così via. Questo
    significa che fu sempre mantenuto il più rigoroso riserbo sui lavori che venivano svolti in un mitreo.
    L’accesso all’organizzazione doveva essere riservato ai soli membri delle famiglie sacerdotali,
    almeno al livello operativo, quello decisionale, dal terzo grado in su (occasionalmente potevano
    essere affiliate nei primi due gradi persone non appartenenti a queste famiglie, come nel caso
    dell’imperatore Commodo). Questo sistema di reclutamento è perfettamente in linea con le
    evidenze storiche ed archeologiche in nostro possesso. Anche al culmine del suo potere e
    diffusione, il Sol Invictus Mitra appare una istituzione di elite, con un numero assai limitato di
    adepti. La maggior parte dei mitrei, infatti, erano stanze molto piccole, che non potevano ospitare
    più di una ventina di persone. Certamente, quindi, non era una religione di massa, ma
    un’organizzazione a cui potevano accedere soltanto i vertici delle forze armate e della burocrazia
    imperiale. Tuttavia non conosciamo assolutamente nulla della politica di reclutamento di questa
    istituzione. Non sappiamo se reclutasse i suoi membri fra gli alti ranghi della società romana, o se al
    contrario erano i membri di questa organizzazione che “infiltravano” tutte le posizioni di potere di
    questa società. Le evidenze storiche in nostro possesso favoriscono l’ipotesi che l’appartenenza a
    questa istituzione fosse riservata su base etnica. Per capire il suo successo, dobbiamo ritenere che
    11
    l’accesso ad essa, almeno al livello operativo, fosse riservato ai discendenti di quel gruppo di
    sacerdoti giudaici che erano venuti a Roma al seguito di Tito, dopo la distruzione di Gerusalemme.
    Il Sol Invictus Mitra conquista l’impero romano
    Sia le fonti scritte che le testimonianze archeologiche confermano che da Domiziano in poi
    Roma rimase sempre la sede più importante del Sol Invictus Mitra, che si era saldamente installato
    nel cuore stesso dell’amministrazione imperiale, sia nel palazzo vero e proprio che nella guardia
    pretoriana. Da Roma l’organizzazione mitraica si diffuse immediatamente nella vicina Ostia, il
    porto con il più grande volume di traffico commerciale dell’intero Mediterraneo, dove confluivano
    merci da ogni parte dell’impero, per soddisfare l’insaziabile appetito della capitale. Nel corso del
    secondo e terzo secolo vi furono costruiti almeno una quarantina di mitrei, evidente dimostrazione
    che i membri dell’organizzazione mitraica avevano assunto il controllo delle attività commerciali
    del porto, sorgente di entrate incalcolabili e di grande potere economico.
    Nel contempo l’istituzione mitraica si diffuse in tutto il resto dell’impero, in particolare in
    quello occidentale. Il primo mitreo di cui si abbia notizia al di fuori della cerchia romana fu
    costruito intorno al 110 d.C in Pannonia, a Poetovio, il maggior centro doganale della regione ad
    opera dei funzionari della dogana. Quasi contemporaneamente sorse un mitreo presso la
    guarnigione militare di Carnutum, sempre in Pannonia e subito dopo in tutte le province danubiane
    (Rezia, Norico, Mesia e Dacia). Tra gli adepti di Mitra ritroviamo i funzionari delle dogane, che
    raccoglievano le gabelle poste su ogni genere di trasporto dall’Italia verso il Centro Europa e
    viceversa; i funzionari imperiali che controllavano i trasporti, la posta, l’amministrazione delle
    finanze e le miniere; ed infine gli ufficiali che comandavano le guarnigioni scaglionate lungo il
    confine. Contemporaneamente al bacino danubiano, sorsero numerosi mitrei anche nel bacino del
    Reno, a Bonn e Treviri. Seguirono poi la Britannia, la Spagna ed il Nord Africa, dove sorsero mitrei
    già nelle prime decadi del secondo secolo, sempre associati a centri amministrativi e guarnigioni
    militari.
    Le evidenze archeologiche, quindi, dimostrano che nel corso del secondo secolo i membri del
    Sol Invictus Mitra occuparono le principali posizioni dell’amministrazione pubblica, divenendo la
    classe dominante nelle province esterne dell’impero, soprattutto nell’Europa centrale e
    settentrionale. Abbiamo visto in precedenza che i membri del Sol Invictus Mitra avevano infiltrato
    anche la tradizionale religione pagana, assumendo il controllo del culto delle principali divinità, a
    cominciare dal Sole.
    La mossa vincente, tuttavia, quella che rese irresistibile l’ascesa dell’istituzione mitraica, fu la
    presa di controllo dell’esercito. Giuseppe Flavio sapeva per esperienza personale che l’esercito
    poteva diventare l’arbitro del trono imperiale. Chiunque controllava l’esercito controllava l’impero.
    L’obiettivo principale che egli fissò per l’organizzazione mitraica dovette essere quello di infiltrare
    l’esercito e assumerne il controllo.
    Ed infatti ritroviamo mitrei in tutti i luoghi in cui erano stazionate delle guarnigioni militari. In
    poco meno di un secolo l’istituzione mitraica riuscì ad assumere il controllo di tutte le legioni
    stazionate nelle province esterne e lungo i confini, al punto che il “culto” del Sol Invictus Mitra è
    considerato dagli storici come la religione tipica dei soldati romani. Prima ancora che all’esercito,
    tuttavia, le attenzioni del Sol Invictus si erano rivolte alla guardia pretoriana, la guardia personale
    dell’imperatore. Non è un caso che la seconda iscrizione dedicatoria mitraica, in ordine di tempo,
    riguardi proprio un comandante del Pretorio e che la concentrazione di mitrei fosse particolarmente
    elevata nei pressi delle caserme dei pretoriani. L’infiltrazione di questo corpo militare deve essere
    iniziata già al tempo degli imperatori Flavii. Essi potevano contare sulla fedeltà incondizionata dei
    liberti giudaici, che dovevano tutto ad essi, la loro vita, la sicurezza ed il benessere. Gli imperatori
    romani erano riluttanti a mettere la propria sicurezza personale nelle mani di ufficiali provenienti
    dai ranghi del senato, il loro maggior opponente politico, pertanto i quadri della loro guardia
    12
    personale furono formati principalmente da liberti e membri dell’ordine equestre (a cui fu sempre
    riservato il comando del Pretorio). Questo dovette favorire in modo particolare il Sol Invictus Mitra,
    che fece del Pretorio un suo feudo incontrastato fin dagli inizi del secondo secolo.
    Una volta acquisito il controllo del pretorio e dell’esercito, il Sol Invictus Mitra fu in grado di
    mettere le mani anche sulla carica imperiale. Questo avvenne nel 193 d.C., quando Settimio Severo
    fu proclamato imperatore dall’esercito. Nato a Leptis Magna, nel Nord Africa, da una famiglia
    equestre di alti burocrati, egli era certamente un membro mitraico, avendo sposato Giulia Domna,
    sorella di un certo Bassiano, sacerdote del Sole Invitto. Da allora in poi la carica imperiale fu
    prerogativa del Sol Invictus Mitra e tutti gli imperatori furono proclamati tali (o rimossi)
    dall’esercito o dalla guardia pretoriana.
    Giudicando in prospettiva, appare evidente che l’obiettivo finale della strategia concepita da
    Giuseppe Flavio era la completa sostituzione della classe dirigente dell’impero romano con membri
    del Sol Invictus Mitra. Questo obiettivo fu conseguito in meno di due secoli, grazie alla politica
    messa in atto dagli imperatori mitraici.
    I ranghi dell’amministrazione imperiale romana provenivano quasi totalmente da nuove
    famiglie di origine ignota, che erano emerse nel corso del primo secolo e agli inizi del secondo, in
    antagonismo all’aristocrazia senatoriale, tradizionalmente contrapposta al potere dell’imperatore.
    Questo gruppo di famiglie formavano il cosiddetto ordine equestre, che ben presto divenne un feudo
    incontrastato del Sol Invictus Mitra. Certamente la maggior parte delle famiglie dei 15 alti sacerdoti
    del seguito di Giuseppe Flavio, ricchi, con ottime relazioni interpersonali e forti del favore
    imperiale, dovettero confluire in questo ordine.
    Gli imperatori mitraici provenivano tutti dall’ordine equestre e governarono in aperta
    opposizione al senato, umiliandolo, privandolo delle proprie prerogative e beni materiali e
    colpendolo fisicamente con l’esilio e la condanna capitale di un gran numero dei suoi membri più
    eminenti, tanto che nel corso del terzo secolo buona parte delle antiche famiglie senatoriali
    scomparvero dalla scena. Contemporaneamente essi cominciarono ad immettere nel senato un gran
    numero di famiglie equestri. Questa politica era stata iniziata da Settimio Severo e sviluppata da
    Gallieno (il quale, è bene ricordarlo, fu anche l’autore del primo editto di tolleranza nei confronti
    del Cristianesimo), che stabilì per decreto che tutti coloro che avevano ricoperto la carica di
    governatori di provincia o di prefetto del pretorio, incarichi riservati entrambi all’ordine equestre,
    entrassero di diritto a far parte del senato. Questo diritto fu poi esteso ad altre categorie di
    funzionari, grandi burocrati ed alti ufficiali dell’esercito (tutti membri dell’organizzazione mitraica,
    dobbiamo supporre). Il risultato finale fu che nel giro di alcuni decenni praticamente l’intera classe
    equestre transitò nei ranghi del senato, soppiantando le famiglie della originaria aristocrazia romana
    ed italica.
    Nel frattempo la diffusione del cristianesimo attraverso l’impero procedeva speditamente.
    Ovunque arrivassero i rappresentanti di Mitra, lì immediatamente sorgeva una comunità cristiana.
    Alla fine del secondo secolo si contavano almeno quattro sedi episcopali in Britannia, sedici in
    Gallia ed altrettante in Spagna e praticamente una in ogni grande città del Nord Africa e del Medio
    Oriente. Nel 261 il Cristianesimo fu riconosciuto come religione lecita dal mitraico Gallieno e
    mezzo secolo dopo fu proclamata religione ufficiale dell’impero dal mitraico Costantino, sebbene
    fosse ancora largamente minoritaria nella società romana (i cristiani erano allora assai meno del
    20% dell’intera popolazione). Da quel momento in poi fu gradualmente imposta alla popolazione
    dell’impero, con una serie di misure che culminarono, alla fine del quarto secolo, con l’abolizione
    delle religioni pagane e la “conversione” in massa del senato romano.
    La situazione finale per quanto concerne le classi dirigenti dell’impero occidentale era allora la
    seguente: l’antica nobiltà di origine pagana era virtualmente scomparsa e la nuova nobiltà
    senatoriale, che si identificava con la classe dei grandi proprietari terrieri, era costituita in gran parte
    da ex membri del Sol Invictus Mitra. Sul piano religioso il paganesimo era stato completamente
    eliminato ed il cristianesimo era divenuto la religione di tutti gli abitanti dell’impero. Esso era
    controllato da gerarchie ecclesiastiche che provenivano quasi interamente dalla classe senatoriale ed
    13
    erano dotate di immense proprietà fondiarie (fra l’altro esenti da tasse) e di poteri quasi reali
    nell’ambito delle proprie diocesi.



    Le famiglie sacerdotali erano diventate padrone assolute di quello stesso impero che aveva
    distrutto Israele ed il tempio di Gerusalemme. Tutte le alte cariche dell’impero, sia civili che
    religiose, e tutta la sua ricchezza erano nelle loro mani, e la carica suprema, quella dell’imperatore,
    era stata assegnata in perpetuo, per diritto divino, alla più illustre delle tribù sacerdotali, la “Gens
    Flavia” (da Costantino in poi, infatti, tutti gli imperatori romani o pretendenti tali, nessuno escluso,
    avevano il prenome Flavio), verosimilmente discendente dallo stesso Giuseppe Flavio.





    Tre secoli prima Giuseppe aveva scritto con orgoglio:
    “La mia famiglia non è oscura, anzi è di discendenza sacerdotale; come presso ciascun popolo
    esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma
    nell’appartenenza all’ordine sacerdotale” (Vita 1,1).
    Alla fine del quarto secolo i suoi discendenti potevano applicare con pieno diritto quelle stesse
    parole all’impero romano.


    A quel punto l’istituzione del Sol Invictus Mitra non era più necessaria per assicurare le fortune
    della famiglia sacerdotale e fu liquidata. Era stata lo strumento della cospirazione più di successo
    dell’intera Storia.
    14
  12. .
    Ovvero, chi era veramente Gesù Cristo ?


    Per proseguire l' analisi storica devo citare un post del mio amico Jehoudda , da :

    http://consulenzaebraica.forumfree.it/?t=66146102




    Questo intervento vuole essere come indicato nel titolo un tentativo, ovviamente congetturale, di riconciliare il Testimonium Flavianum e la cosiddetta "ipotesi zelota", attraverso una lettura/interpretazione diversa del primo realizzata in una rilettura delle origini del cristianesimo altrettanto diversa in quanto specificamente improntata all'assunzione di una iniziale e totale dominante "messianista" ebraica nel suo "genoma costitutivo".


    (da questo momento, pertanto, utilizzerò la nomenclatura "ipotesi messianista" in luogo di "ipotesi zelota", intanto perchè mi sembra più appropriata, anche alla luce di una rigorosa, ma i cui risultati sono stati forse un po' strumentalmente orientati, analisi semantica fatta a suo tempo sui testi di FG, che ha messo in luce una probabile tardiva apparizione degli Zeloti tout court nel quadro delle complesse vicende che ebbero luogo nella Palestina del 1 secolo).


    Si tratta, ripeto, di un tentativo assolutamente congetturale, che non ha la pretesa di stabilire verità storiografiche inappellabili, ma che al contrario, nella sua ipoteticità e nella sua ricerca di plausibilità, vuole eventualmente porre in discussione altre conclusioni storiografiche, oggi ancora decisamente maggioritarie, che al sottoscritto continuano ad apparire molto meno solide negli assunti e nelle risultanze di quanto comunemente si creda e si dia a credere.


    Mi scuso quindi anticipatamente per la inevitabile serie di difetti formali e sostanziali che essa contiene (ne vedo già io ma tenderò per quanto mi sarà possibile a correggerli e/o eliminarli "via facendo", anche grazie ad eventuali critiche che qualche utente interessato vorrà portare).
    Lo studio e l'analisi delle origini del cristianesimo presentano un grado di complessità enorme che non facilitano il compito di chi, da non specialista, voglia tentare di discutere e confrontarsi.

    Ritengo opportuno prima di esprimere questa mia personale visione, proporre quello che dovrebbe essere l'articolo più recente pubblicato da un grande specialista quale Louis Feldman in merito al TF.
    Si tratta di un articolo inserito nel volume New Perspectives on Jewish-Christian Relations di Elisheva Carlebach e Jacob J. Schacter Brill 2011, articolo che è integralmente consultabile in anteprima google qui
    http://books.google.it/books?id=E90FkMEurO...OSEPHUS&f=false

    Trovo che sia molto interessante, sia per la sintesi che offre sulla questione tuttora aperta del TF, sia perchè contiene, a mio modo di vedere, alcuni spunti originali e sorprendenti, anche in riferimento a posizioni precedenti dell'autore.
    Non è mia intenzione peraltro assumere le potenziali conclusioni dell'autore, quanto invece prendere spunto da alcuni suoi elementi per ipotizzare un possibile approccio alternativo che potrebbe inserire il TF in un quadro "eretico" rappresentato dall' "ipotesi messianista" di cui sopra.

    Lo propongo in traduzione (non tutti giustamente possono leggerlo in lingua originale)
    Senza intenzione di appesantirlo ho provveduto ad integrare le note all'interno del testo (il diverso'editing del forum lo rendeva necessario). Ho anche aggiunto[/color] in rosso , laddove possibile, i link che rimandano ai testi moderni referenziati da Feldman, nonchè alcuni testi originali greci e latini citati, per una maggiore completezza e migliore fruibilità diretta.
    Ho preferito in alcuni casi lasciare dei termini in inglese (in parallelo o non) alla traduzione italiana in considerazione del fatto che la traduzione avrebbe rischiato in ogni caso di offuscare le importanti sfumature che l'autore intendeva dare con la sua esposizione.



    ON THE AUTHENTICITY OF THE TESTIMONIUM FLAVIANUM ATTRIBUTED TO JOSEPHUS
    Louis H. Feldman*


    * Sono grato a Gary Goldberg, Steve Mason, John P. Meier, e Alice Whealey per i numerosi eccellenti suggerimenti che mi hanno dato durante al stesura di questo aticolo.


    Molto è stato scritto a proposito di due brevi paragrafi negli scritti di Flavio Giuseppe.
    Antichità 18.63-64, che contengono i commenti su Gesù, più di quanto si sia fatto per ogni altra parte dei suoi lavori. Il testo del TF, così come è conosciuto recita come segue:

    Γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον ᾿Ιησοῦς σοφὸς ἀνήρ, εἴγε ἄνδρα αὐτὸν
    λέγειν χρή. ἦν γὰρ παραδόξων ἔργων ποιητής, διδάσκαλος ἀνθρώπων
    τῶν ἠδονῇ τἀληθῆ δεχομένων, καὶ πολλοὺς μὲν ᾿Ιουδαίους, πολλοὺς δὲ
    καὶ τοῦ ῾Ελληνικοῦ ἐπηγάγετο• ὁ χριστὸς οὗτος ἦν. καὶ αὐτὸν ἐνδείξει
    τῶν πρώτων ἀνδρῶν παρ᾿ ἡμῖν σταυρῷ ἐπιτετιμηκότος Πιλάτου οὐκ
    ἐπαύσαντο οἱ τὸ πρῶτον ἀγαπήσαντες• ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων
    ἡμέραν πάλιν ζῶν τῶν θείων προφητῶν ταῦτά τε καὶ ἄλλα μυρία περὶ
    αὐτοῦ θαυμάσια εἰρηκότων. εἰς ἔτι τε νῦν τῶν Χριστιανῶν ἀπὸ τοῦδε
    ὠνομασμένον οὐκ ἐπέλιπε τὸ φῦλον.


    About this time, there lived Jesus, a wise man, if indeed one ought
    to call him a man. For he was one who wrought surprising feats and
    was a teacher of such people as accept the truth gladly. He won over
    many Jews and many of the Greeks. He was the Messiah. When Pilate,
    upon hearing him accused by men of the highest standing amongst us,
    had condemned him to be crucified, those who had in the first place
    come to love him did not give up their affection for him. On the third
    day, he appeared to them restored to life, for the prophets of God had
    prophesied these and countless other marvelous things about him. And
    the tribe of the Christians, so called after him, has still to this day not
    disappeared.



    Nel mio Josephus and Modern Scholarship, 1937-1980, menziono 87 articoli che discutono questo passaggio nel periodo dal 1937 al 1980, la grande maggioranza dei quali si interroga sulla autenticità integrale o parziale di questi paragrafi. [ Louis H. Feldman, Josephus and Modern Scholarship, 1937-1980 (Berlin, 1984), 680-684]

    In un articolo su questo argomento scritto dieci anni fa, James Carleton Paget analizza 97 fra libri e articoli.
    [ James N. B. Carleton Paget, "Some Observations on Josephus and Christianity," Journal of Theological Studies 52 (2001): 539-624.
    link anteprima google articolo http://books.google.it/books?id=AFLJ682D9Q...y%2C%22&f=false]

    Alice Whealey ha scritto un intero volume su questo argomento, e nella sua bibliografia elenca 150 fra libri ed articoli. [Alice Whealey, Josephus on Jesus: The Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to Modern Times (New York, 2003].

    La questione non è stata ancora definitivamente sviscerata.
    La prima persona, fra gli scrittori la cui opera è sopravvissuta, che abbia citato il TF è il padre della Chiesa del primo 4 sec. Eusebio che si serve della fonte in tre dei suoi lavori: Demonstratio evangelica, Historia ecclesiastica, e Theophania.

    Demonstratio evangelica (Bk. III.2.102-5.124) and in Theophania (Bk. V.1-45)

    Comment of Eusebius in Demonstratio evangelica (Bk III.5.124-125):
    “If, then, even the historian's evidence shews that He attracted to Himself not only the twelve Apostles, nor the seventy disciples, but had in addition many Jews and Greeks. He must evidently have had some extraordinary power beyond that of other men. For how otherwise could He have attracted many Jews and Greeks, except by wonderful miracles and unheard-of teaching? And the evidence of the Acts of the Apostles goes to shew that there were many myriads of Jews who believed Him to be the Christ of God foretold by the prophets. And history also assures us that there was a very important Christian Church in Jerusalem, composed of Jews, which existed until the siege of the city under Hadrian. The bishops, too, who stand first in the line of succession there are said to have been Jews, whose names are still remembered by (125) the inhabitants. So that thus the whole slander against His disciples is destroyed, when by their evidence, and apart also from their evidence, it has to be confessed that many myriads of Jews and Greeks were brought under His yoke by Jesus the Christ of God through the miracles that He performed.”


    Comment of Eusebius in Theophania (Bk. V.45):
    “If therefore, as (this) author attests of Him, He was the doer of wonderful works, and that He made His Disciples,--not only the twelve Apostles, or the seventy Disciples, but also attached to Himself,--myriads of others both of the Jews and Gentiles; it is clear, that He possessed something excellent beyond the rest of mankind. For, How could He have otherwise attached to Himself the many, both of the Jews and Gentiles, unless He had made use of miracles and astonishing deeds, and of doctrines (till then) unknown? The Book of the Acts of the Apostles also attests, that there were many thousands of the Jews, who were persuaded that He was that Christ of God, who had been preached of by the Prophets. It is also on record, that there was a great Church of Christ at Jerusalem; which had been collected from among the Jews, even to the times of its reduction by Hadrian. The first Bishops too who were there, are said to have been, one after another, fifteen (in number), who were Jews; the names of whom are published to the men of that place, even until now. So that by these, every accusation against the Disciples may be undone; since, what was prior to them, and independent of their testimony, these attest of Him, (viz.), that He, the Christ of God, did by means of these wondrous works which He performed, reduce many, both of the Jews and of the Gentiles, beneath His power.”



    Ci sono leggere differenze nelle tre citazioni, che inducono a chiedersi se Eusebio stesso abbia potuto alterare l’esatta formulazione del testo. Sorprende, inoltre, il fatto che la Chiesa, coinvolta in tante e così aspre controversie teologiche, non abbia insistito sull’esatto linguaggio delle testimonianze cruciali del credo così come appaiono in Flavio Giuseppe.


    In particolare, ci possiamo chiedere perché la Chiesa, messa di fronte com'era alla pressante problema della stessa esistenza di Gesù, non colse l'occasione per replicare. (come si rileva nel Dialogue with Trypho' di Giustino Martire essa risponde a questa accusa alla metà del 2 sec, due secoli prima di Eusebio. Che fosse il reale Giustino o uno Pseudo-Giustino, la data è comunque la stessa. E se Giustino o uno Pseudo-Giustino, avevano letto FG, certamente sapeva che il maggior attacco contro la cristianità era il dubbio sulla stessa esistenza di Gesù).


    Nulla, sarebbe stato un argomento piu solido, per negare la tesi della non esistenza di Gesù, di una citazione da Giuseppe, un Ebreo e un rispettatissimo storico che era nato appena pochi anni dopo la morte di Gesù e i cui due maggiori lavori (War and the Antiquities), racconti paralleli di quel periodo, sono ricchi di informazioni su Roma. Fu onorato con una statua a Roma e le sue opere furono inserite in una biblioteca della città.( 6 Eusebius, Historia ecclesiastica 3.9.). Degno di nota anche il fatto che FG era tenuto in alta considerazione fra i Cristiani, soprattutto perché la maggior parte delle Sacre Scritture erano identiche alla Bibbia ebraica e FG presenta nelle sue Antiquities una parafrasi estremamente dettagliata della Bibbia


    [7 The fourth-century Pseudo-Hegesippus 2.12.1: "who is considered the greatest"; the fourth-century John Chrysostom, Adversus Judaeos 5.8: "among Jews"; the fifthcentury Sozomen, ap. Historia ecclesiastica 1.1.5: "very famous among both Jews and pagans."]

    Malgrado ciò, ci sono otto scrittori Cristiani che vissero prima di Eusebio e che menzionano FG, ma che non fanno alcun riferimento al TF nelle loro opere: Theophilus of Antioch, Minucius Felix, Julius Africanus, Hippolytus, Origen, Methodius, Pseudo-Eustathius, e Pseudo-Justin
    [vedi Louis H. Feldman, "The Testimonium Flavianum: The State of the Question," in Christological Perspectives: Essays in Honor of Harvey K. McArthur, ed. Robert F. Berkey and Sarah A. Edwards (New York, 1982), 181-184.]

    Il fatto, se è un fatto, che non si conosca alcun Cristiano pre-niceno che abbia utilizzato gli scritti di FG in apologie dirette ad ebrei è certamente sorprendente in relazione all'accusa, come visto nel The Dialogue with Trypho, che Gesù non fosse esistito e in funzione del desiderio dei Cristiani di convertire gli Ebrei. A rigor di logica, questo è un argumentum ex silentio; ma quando il numero di scrittori è cosi grande e quando questi sono autori molto coinvolti nelle questioni teologiche, specialmente questioni concernenti la natura di Gesù, l'omissione è rimarchevole.
    Il caso di Origene, che morì nel 253 e che fu un grande protagonista nelle dispute teologiche della prima Chiesa, ha una particolare importanza. Egli non solo si riferisce a FG, ma cita anche 5 passaggi (18.4ff., 55ff., 110, 130, 116ff.) dal Libro 18 delle Antiquities, nel quale c’è il TF, senza citare il TF stesso.
    Nel Commentary on Matthew 10:17 egli afferma esplicitamente :

    "la sorpresa è che sebbene egli non riconoscesse che il nostro Gesù fosse il Messia, ciò nonostante diede testimonianza di una simile giustizia in Giacomo (the wonder is that though he did not admit our Jesus to be Christ, he nonetheless gave witness to such righteousness in James),"

    e in Contra Celsum 1:47 scrive che

    "egli, Giuseppe non credeva in Gesù quale Cristo"

    laddove il Testimonium esplicitamente dichiara che "he was the Messiah."

    Pochi hanno messo in dubbio l'autenticità del passaggio di FG su Giacomo (Antiquities 20.200). La versione del TF nelle Antichità, se esso era conosciuto da Origene, deve apparentemente aver contenuto qualcosa su Gesù, poiché altrimenti Origene non avrebbe avuto alcuna ragione di affermare che Giuseppe non accettava Gesù quale Cristo. Questo implicherebbe che Origene possedeva un testo simile a quello di Gerolamo e Michele il Siriano il quale affermava che Gesù era considerato (“was thought to be”) il Messia.
    [Michel le Syrien, Chronique 10.20 [378], ed. Jean-Baptiste Chabot (Paris, 1899; repr. Brussels, 1963).]

    Inoltre, nel rispondere agli attacchi molto insidiosi di Celso contro Gesù e i Cristiani, in modo particolare in merito ai miracoli di Gesù, Origene avrebbe molto naturalmente citato il Testimonium di FG, che cosi esplicitamente si riferisce a questi miracoli. Anche dopo Eusebio, quasi un intero secolo trascorse prima che qualcuno facesse un altro riferimento al Testimonium. Durante quel periodo, i seguenti sette Padri della Chiesa fanno riferimento alle opere di FG e tuttavia non citano il Testimonium: Ambrose, Basil, John Chrysostom, Josippos, Panodorus, Rufinus, Severus, and Sulpicius.[ vedi Feldman, "The Testimonium Flavianum," 184.]
    Il silenzio di John Chrysostom è particolarmente sorprendente; difficilmente troviamo un Padre della Chiesa più veemente di lui nei suoi attacchi contro gli Ebrei [vedi e.g., Chrysostom, Homily 1.4, 6]. Se FG avesse davvero ritratto Gesù in una luce negativa, sembra verosimile che egli avrebbe citato la cosa per rafforzare il suo attacco contro gli Ebrei. Al contrario, se il Testimonium fosse stato positivo, avrebbe sicuramente potuto citarlo per mostrare che gli Ebrei erano colpevoli del crimine di deicidio.
    Il primo scrittore "sopravvissuto" che dopo Eusebio si riferisca al TF è Jerome (347-419). Nonostante Jerome citi Giuseppe non meno di 90 volte, egli si riferisce al TF solo una volta.[ De viris illustribus 13.14].

    De Viris Illustribus, XIII, 147 reads as follows:
    "Scripsit [Josephus] autem de domino in hunc modum: 'Eodem tempore fuit Jesus vir sapiens, si tarnen virum oportet eum dicere. Erat enim mirabilium patrator operum et doctor eorum qui libenter vera suscipiunt. Plurimos quoque tarnen de Judaeis quam de gentibus sui habuit sectatores et credebatur esse Christus. Cumque invidia nostrorum principum cruci eum Pilatus addixisset, nihilominus qui eum primum dilexerant, perseveraverunt in fide.149 Apparuit enim eis tertia die vivens, haec et multa alia mirabilia carminibus prophetarum de eo vaticinantibus. Et usque hodie Christianorum gens ab hoc sortita vocabulum non deficit.


    147 The efficiency of the Christian censorship, which almost succeeded in getting rid of all the versions of the Testimonium that differed in a significant manner from the vulgate recension, is illustrated by the fact that the Greek translation of De Viris Illustrious contains this vulgate recension; none of the traits in which St. Jerome diverges from it have been retained; see O. von Gebhardt, 'Hieronymus — De Viris Inlustribus in griechischer Übersetzung', Texte und Untersuchungen, XIV, Leipzig 1896.

    Sebbene egli stia chiaramente citando, scrive che Gesù "credebatur esse Christus" (was believed to be the Messiah), piuttosto che "egli era il Messia". Questo coinciderebbe con l'affermazione di Origene, al quale Jerome era così profondamente connesso, che il testo di Giuseppe riportava, come nella più recente versione di Agapius, che egli non ammetteva che Gesù fosse il Messia.

    Heinz Schreckenberg ha sottolineato la libertà con la quale Origene attribuisce a Giuseppe affermazioni che non si ritrovano oggi nel nostro testo di Giuseppe [13 Heinz Schreckenberg, "Josephus in Early Christian Literature and Medieval Christian Art," in Jewish storiography and Iconography in Early and Medieval Christianity, ed. Heinz Schreckenberg and Kurt Schubert (Assen, The Netherlands, and Minneapolis, MN, 1992), 57. Link anteprima google
    http://books.google.it/books?id=z60oURWxvJ...eval%22&f=false

    Così, per esempio, egli afferma platealmente che secondo Giuseppe,-sebbene questo non vi sia nel nostro testo di Giuseppe- la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio colpirono gli Ebrei quale punizione per la loro responsabilità nella morte di Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù. [Origen, Contra Celsum 1.47.] riportare il testo greco

    Καίτοι γε άπιστων τω "Ιησοϋ ώς Χριστώ
    [Contre Celse, I, 47 (édit. P. Koetschau, Leipzig, 1899, p. 97, 3).]


    Εβουλομην δ αν Κελσω, προσωποποιησαντι τον Ιουδαιον παραδεξαμενον πως Ιωαννην ως βαπτιστην βαπτιζοντα τον Ιησουν, ειπειν οτι το Ιωαννην γεγονεναι βαπτιστην, εις αφεσιν αμαρτηματων βαπτιζοντα, ανεγραψε τις των μετ ου πολυ του Ιωαννου και του Ιησου γεγενημενων. εν γαρ τω οκτωκαιδεκατω της ιουδαικης αρχαιολογιας ο Ιωσηπος μαρτυρει τω Ιωαννη ως βαπτιστη γεγενημενω και καθαρσιον τοις βαπτισαμενοις επαγγελλομενω. ο δ αυτος, καιτοι γε απιστων τω Ιησου ως Χριστω, ζητων την αιτιαν της των Ιεροσολυμων πτωσεως και της του ναου καθαιρεσεως, δεον αυτον ειπειν οτι η κατα του Ιησου επιβουλη τουτων αιτια γεγονε τω λαω, επει απεκτειναν τον προφητευομενον Χριστον ο δε και ωσπερ ακων ου μακραν της αληθειας γενομενος φησι ταυτα συμβεβηκεναι τοις Ιουδαιοις κατ εκδικησιν Ιακωβου του δικαιου, ος ην αδελφος Ιησου του λεγομενου Χριστου, επειδηπερ δικαιοτατον αυτον οντα απεκτειναν. [τον δε Ιακωβον τουτον ο Ιησου γνησιος μαθητης Παυλος φησιν εωρακεναι ως αδελφον του κυριου, ου τοσουτον δια το προς αιματος συγγενες η την κοινην αυτων ανατροφην οσον δια το ηθος και τον λογον.] ειπερ ουν δια Ιακωβον λεγει συμβεβηκεναι τοις Ιουδαιοις τα κατα την ερημωσιν της Ιερουσαλημ, πως ουχι ευλογωτερον δια Ιησουν τον Χριστον τουτο φασκειν γεγονεναι; ου της θειοτητος μαρτυρες αι τοσαυται των μεταβαλοντων απο της χυσεως των κακων εκκλησιαι και ηρτημενων του δημιουργου και παντ αναφεροντων επι την προς εκεινον αρεσκειαν.

    I would like to say to Celsus, who represents the Jew as accepting somehow John, who baptized Jesus, as a baptist, that the existence of John the Baptist, baptizing for the remission of sins, is related by one who lived no great length of time after John and Jesus. For in the eighteenth book of his ANTIQUITIES OF THE JEWS Josephus bears witness to John as having been a baptist and as promising purification to those who underwent the rite. Now he himself, although not believing in Jesus as the Christ, in seeking the cause of the fall of Jerusalem and the destruction of the temple, whereas he ought to have said that the conspiracy against Jesus was the cause of these calamities befalling the people, since they put Christ to death, who was a prophet, nevertheless says, being albeit against his will not far from the truth, that these disasters happened to the Jews as a punishment for the death of James the just, who was a brother of Jesus called Christ, the Jews having put him to death, although he was a man most distinguished for his justice. [Paul, a genuine disciple of Jesus, says that he regarded this James as a brother of the Lord, not so much on account of their relationship by blood, or of their being brought up together, as because of his virtue and doctrine.] If, then, he says that it was on account of James that the desolation of Jerusalem was made to overtake the Jews, how should it not be more in accordance with reason to say that it happened on account of Jesus Christ? Of his divinity so many churches are witnesses, composed of those who have been convened from a flood of sins and have joined themselves to the creator, and who refer all their actions to his good pleasure.


    Και το θαυμαστόν εστίν, δτι τον Ίησοϋν ημών ον καταδεξάμενος είναι Χριστόν, ονδεν 'ήττον...
    Commentaire sur S. Matthieu, X, 17 (édit. E. Klostermann, Leipzig, 1935, p. 22, 6 ss. ; Migne, P. G., t. XIII, col. 877 milieu).

    Ιακωβος δε εστιν ουτος ον λεγει Παυλος ιδειν εν τη προς Γαλατας επιστολη ειπων• Ετερον δε των αποστολων ουκ ειδον ει μη Ιακωβον τον αδελφον του κυριου. επι τοσουτον δε διελεμψεν ουτος ο Ιακωβος εν τω λαω επι δικαιοσυνη ως Φλοβιον Ιωσηπον αναγραψαντα εν εικοσι βιβλιοις την Ιουδαικην αρχαιολογιαν, την αιτιαν παραστησαι βουλομενον του τα τοσαυτα πεπονθεναι τον λαον ως και τον ναον κατασκαφηναι, ειρηκεναι κατα μηνιν θεου ταυτα αυτοις απηντηκεναι δια τα εις Ιακωβον τον αδελφον Ιησου του λεγομενου Χριστου υπ αυτων τετολμημενα. και το θαυμαστον εστιν οτι, τον Ιησουν ημων ου καταδεξαμενος ειναι Χριστον, ουδεν ηττον Ιακωβω δικαιοσυνην εμαρτυρησε τοσαυτην. λεγει δε οτι και ο λαος ταυτα ενομιζε δια τον Ιακωβον πεπονθεναι. και Ιουδας εγραψεν επιστολην ολιγοστιχον μεν, πεπληρωμενην δε των της ουρανιου χαριτος ερρωμενων λογων, οστις εν τω προοιμιω ειρηκεν• Ιουδας Ιησου Χριστου δουλος, αδελφος δε Ιακωβου. περι δε Ιωσηφ και Σιμονος ημεις ουδεν ιστορησαμεν.

    And this James is the one whom Paul says he saw in the epistle to the Galatians, saying: But I did not see any other of the apostles except James the brother of the Lord. And to so great a reputation among the people for righteousness did this James rise that Flavius Josephus, who wrote the ANTIQUITIES OF THE JEWS in twenty books, when wishing to exhibit the cause why the people suffered so great misfortunes that even the temple was razed to the ground, said that these things happened to them in accordance with the wrath of God in consequence of the things which they had dared to do against James the brother of Jesus who is called Christ. And the wonderful thing is that, though he did not accept Jesus as Christ, he yet gave testimony that the righteousness of James was so great; and he says that the people thought that they had suffered these things because of James. And Jude wrote an epistle short in lines but full of the healthy words of heaven; in the preface he has said: Jude, servant of Jesus Christ, and brother of James. But concerning Joseph and Simon we have nothing to relate.



    Joseph Sievers ha evidenziato che sebbene interpolazioni cristiane nel testo di Giuseppe siano originariamente attestate in Origene, esse potrebbero essere precedenti alla sua epoca. [Joseph Sievers, "The Ancient Lists of Contents of Josephus' Antiquities," in Studies in Josephus and the Varieties of Ancient Judaism: Louis H. Feldman Jubilee Volume, ed. Shaye J. D. Cohen and Joshua J. Schwartz (Leiden, 2007), 290, n. 61, cita Fausto Parente, "Sulla doppia trasmissione, filologica ed ecclesiastica, del testo di Flavio Giuseppe: Un contributo alla storia della ricezione della sua opera nel mondo cristiano," Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 36 (2000): 3-51, esp. pp. 12, 15, 49.]
    link anteprima google articolo Sievers http://books.google.it/books?id=z3ZywMar4P...s%2C%22&f=false

    Un contemporaneo di Jerome, Pseudo-Hegesippus, nella sua libera parafrasi del TF, parla, così come il Testimonium, di Gesù quale "wise man-if it is appropriate to call him a man-who performed miracles and who arose from the dead three days after his death so that many Jews and even more Gentiles believed in him.”

    Pseudo-Hegesippus’ Testimonium

    “They were suffering the punishments for their crimes, those who, after having crucified Jesus, the arbiter of divine affairs, then were also persecuting his disciples. For many Jews and even more Gentiles believed in him and were attracted by his teaching of morals and performance of works beyond human capability. Not even his death put an end to their faith and love, but rather it increased their devotion. And so they brought in murderous bands and conducted the originator of life to Pilatus to be killed, they began to press the reluctant judge. In which however Pilatus is not absolved [non excusator Pilatus], but the madness of the Jews is piled up, because he was not obliged to judge, whom not at all guilty he had arrested, nor to double the sacrilege to this murder, that by those he should be killed who had offered himself to redeem and heal them. Of this the Jews themselves give the testimony, Josephus the writer saying in his history that there was at that time a wise man, if it be appropriate, he says, to call man the creator of miraculous works, who appeared alive to his disciples three days after his death according to writings of the prophets, who prophesied both these and innumerable other things full of wonders about him. From him began the congregation of Christians, even infiltrating every race of humans, nor does there remain any nation in the Roman world that is without his religion. If the Jews do not believe us, they might believe one of their own. Thus spoke Josephus, whom they esteem a very great man, and nevertheless so devious in mind was he who spoke the truth about him, that he did not believe even his own words. Although he spoke for the sake of fidelity to history because he thought it wrong to deceive, he did not believe because of his hardness of heart and faithless intention. Nevertheless it does not prejudice truth because he did not believe, rather it adds to the testimony because, unbelieving and unwilling he did not deny it. In this the eternal power of Jesus Christ shone forth, that even the leading men of the synagogue who delivered him up to death acknowledged him to be God [his divinity].” (Pseudo-Hegesippus, De excidio Hierosolymitano, book 2, chap. 12)


    Egli dice che Giuseppe parlava così di lui ma non credeva alle sue stesse parole, cosi che perfino i maggiorenti della sinagoga che lo consegnarono per la condanna a morte lo riconobbero come Dio. Le principali differenze tra la versione di Pseudo-Egesippo e quella di Eusebio è che il primo omette il ruolo di Ponzio Pilato e la cruciale affermazione che egli era il Messia, ma aggiunge che i Leaders ebrei lo riconobbero quale Dio. Sebbene una parafrasi sia generalmente considerata meno definitiva come prova rispetto a una citazione, nel nostro caso essa ha un vantaggio poichè, come la Whealey rimarca, è più difficile per uno scriba successivo mettere una parafrasi in conformità con un dato testo rispetto ad una citazione. [Whealey, Josephus on Jesus, 31.]
    Lo Pseudo-Egesippo enfatizza il fatto che sia forzato ad accettare l'autenticità del testo, per come lo pone, "Giuseppe, che essi stimano come un grandissimo uomo" era, ciò nonostante, uno spirito così tortuoso che, pur dicendo la verità su Gesù, egli non credeva alle sue stesse parole. Sebbene Giuseppe parlasse per la necessità di rispettare la verità storica, egli non credeva in Gesù a causa della sua durezza di cuore e delle sue intenzioni prive di fede.

    Perfino dopo Eusebio, troviamo quattro scrittori Cristiani nel 5 secolo che conoscono le opere di Giuseppe ma non citano il TF: Orosius, Philostorgius, Theodore of Mopsuestia, and Augustine. Non troviamo chiare citazioni del TF prima di Isidore of Pelusium and Sozomenus nel 5 secolo. [Feldman, "The Testimonium Flavianum," 185.]
    Durante il Medio Evo e fino al sedicesimo secolo, nessun Cristiano, sia nell'Occidente che ad Oriente, nonostante la popolarità di Giuseppe e il grande interesse verso la sua opera nel periodo del Rinascimento e della Riforma, mise in discussione l’autenticità del TF. [18 Peter Burke, "A Survey of the Popularity of Ancient Historians 1450-1700," History and Theory 5, no. 2 (1966): 135-52, mostra come durante il periodo che va dal 1450 to 1700 Giuseppe fuil secondo storico antico "in the vernacular languages" più frequentemente pubblicato ]

    Il primo studioso che asserì che il TF fosse spurio fu l'umanista Hubert Giphanius (van Giffen), che, come quotato in una lettera da Sebastian Lepusculus, cita il Testimonium in una premessa ad una delle versioni dello Yosippon del 1559. In una nota a margine alla sua traduzione dello Yosippon del 1541, l'ebraista Sebastian Munster rimarca che gli studiosi hanno dato molta fiducia all' omissione del TF dalle Antiquities rispetto agli studiosi Cristiani del passato. [Whealey, Josephus on Jesus, 77-84.]



    Quando cominciamo la nostra indagine sulla genuinità del linguaggio del TF non dovremmo essere sorpresi di rilevare che Giuseppe era interessato ad un movimento connesso con Gesù in relazione al suo grande interesse per i movimenti che possono essere classificati come religiosi e politici, quali le quattro sette -Pharisees, Sadducees, Essenes, and the Fourth Philosophy. Il Cristianesimo, come si rileva nelle idee dei suoi fondatori, in modo particolare John the Baptist and Jesus, fu proprio un movimento del genere e, in quanto tale, fu visto con disdegno e timore dal potente Impero Romano.


    Giuseppe consacra molto spazio sia nella Guerra che nelle Antichità all'infame Re ebreo Erode, all' Imperatore Romano Augusto (al quale egli fu sempre leale), e ai procuratori Romani che lo seguirono e costituirono lo sfondo della tremenda rivolta degli Ebrei del primo secolo. Non è sorprendente che i Romani furono molto attenti alle grandi folle che furono coinvolte dall'eloquenza di Giovanni Battista. Giuseppe dedica approssimativamente a Giovanni il doppio dello spazio di Gesù, che, come Giovanni è ritratto come qualcuno che conquistò l'affetto delle masse e pagò un pesante prezzo a causa della sua popolarità. Allo stesso modo, per la guerra contro i Romani, Giuseppe è tremendamente intrigato dalle fazioni e dalle sottofazioni e dalla violenza che esse generarono. Quindi, Giuseppe deve aver trovato in Gesù una figura affascinante che catturò la sua attenzione.



    Gary Goldberg è pertanto tentato di tessere dettagliati confronti tra la descrizione di Gesù nel Vangelo di Luca e nel TF di Giuseppe. [20 Gary Goldberg, "The Coincidences of the Emmaus Narrative of Luke and the Testimonies of Josephus," Journal for the Study of the Pseudepigrapha 13 (1995): 59-77.]
    link articolo completo www.josephus.org/GoldbergJosephusLuke1995.pdf

    Un motivo, non notato finora, per nutrire dubbi (sebbene non sufficiente per sconfessare) la paternità di Giuseppe del TF è che abbiamo due dei suoi passaggi sulla procuratura di Ponzio Pilato in War 2.169-177 e in Antiquities 18.55-89.
    Nel primo (War) egli racconta l'incidente occorso nel tentativo di Pilato di introdurre le effigi dell'Imperatore a Gerusalemme, la conseguente costernazione degli Ebrei, e le susseguenti disposizioni di Pilato di rimuoverle, così come il suo utilizzo del denaro appartenente al Tempio per la costruzione di un acquedotto, la risultante indignazione degli Ebrei e il grande numero dei loro morti. Nel secondo, egli racconta gli incidenti scaturiti dal tentativo di Pilato di introdurre effigi dell'Imperatore a Gerusalemme e il suo utilizzo del denaro appartenente al Tempio per costruire un acquedotto; il Testimonium; la crocifissione di Gesù da parte di Pilato; lo scandaloso incidente a Roma di una signora Romana, Paolina, e del suo amante e la truffa perpetrata ai suoi danni dai sacerdoti di Isis; e l'attacco e il massacro commesso da Pilato ai danni di un gran numero di Samaritani che avevano tentato di risalire sul loro sacro Monte Gerizim e la conseguente lamentela dei Samaritani con il governatore Romano di Siria, che fece si che Pilato fosse richiamato a Roma.



    Entrambe le versioni si focalizzano sul tentativo di Pilato di introdurre i busti dell'Imperatore a Gerusalemme e sull’appropriazione del denaro appartenente al Tempio per un acquedotto.



    Ma è solo nelle Antichità che troviamo Gesù, lo scandaloso incidente di Paolina e il tentativo dei Samaritani di ascendere al Monte Gerizim.
    Poiché entrambi i resoconti si concentrano in maniera critica sulle attività del procuratore Ponzio Pilato, ci possiamo chiedere perché Giuseppe, nel raccontare la messa a morte di quelli che gli si opposero, ometta nella Guerra la sua crocifissione di Gesù, a meno di non considerare questa menzione nelle Antichità come un'interpolazione.
    Un altro posto dove possiamo comparare il primo trattamento di Giuseppe dei detti incidenti con il suo successivo trattamento, è l'antica, breve tavola dei contenuti del Libro 18 delle Antichità. [21 See Sievers, "The Ancient Lists," 271-292.] LINK

    Ά dire il vero, non sappiamo chi scrisse questi indici e quando furono redatti. E’ possibile che essi rimontino all’edizione originale delle Antichità e potrebbero essere stati composti da Giuseppe stesso o da uno dei suoi assistenti. Essi sono molto brevi, ma catturano i punti essenziali del testo di Giuseppe, sebbene in alcuni casi in modo non uniforme. Per esempio, leggiamo, nell' indice di Antichità 18.29, che i samaritani dissacrarono il popolo per sette giorni, senza che venga data una spiegazione della ragione di questo. In ogni caso, questi sommari omettono totalmente ogni menzione al passaggio su Gesù. Sievers, consapevole del fatto che, in accordo con Origene, Giuseppe non credeva che Gesù fosse il Messia (Christ), laddove il Testimonium afferma esplicitamente che egli era il Messia (Christ), conclude che questa è un'indicazione che ci furono interpolazioni Cristiane nel testo di Giuseppe già all' epoca di Origene (c. 233) e che tali interpolazioni possono precedere la sua epoca. [23 Sievers, "The Ancient Lists," 290, n. 61.]

    Per determinare se il Testimonium è autentico, bisognerebbe, prima di tutto, esaminare il suo linguaggio per verificare se esso contiene parole che sono compatibili con il linguaggio utilizzato altrove da Giuseppe, e sembra ragionevole partire dall'evidenza dei manoscritti. Il Testimonium appare in tutti i manoscritti esistenti delle Antichità di Giuseppe. Esso compare similmente in tutti i numerosi manoscritti della traduzione Latina che fu realizzata sotto la direzione di Cassiodoro nel 6 secolo.

    Ma i manoscritti greci più antichi datano al 9 secolo, approssimativamente mille anni dopo che Giuseppe aveva composto le Antichità, e tutti derivano dalla stesso archetipo. (from the same source). Vorremmo avere il piacere di un papiro contenente
    larghe porzioni delle Antichità che datassero ad un periodo molto più vicino all'epoca in cui Giuseppe le scrisse, ma in tal senso si è ritrovato solo un breve frammento, il Papyrus Graeca Vindobonensis 29810, che risale al tardo 3 secolo. Questo frammento, per il nostro disappunto, non proviene dalle Antichità, ma dalla Guerra ed include War 2.576-579, 582-584 [25 Hans Oellacher, ed., Griechische literarische Papyri, vol. 2 (Baden bei Wien, Austria, 1939), 61-65; Heinz Schreckenberg, Die Flavius-Josephus-Tradition in Antike und Mittelalter (Leiden, 1972), 54-55.]

    Sfortunatamente il frammento è in uno stato di conservazione molto cattivo, al punto che possiamo contare solo su 38 parole complete e 74 parziali. Il fatto comunque che ci siano 9 punti (molti dei quali, a dire il vero, basati su congetture decisamente traballanti derivanti da manoscritti collazionati nel testo delle Antichità 18.63–64 da Benedicte Niese –[Benedict Niese, ed., Flavii Iosephi Opera, vol. 4 (Berlin, 1892), 151–152- ] ci induce a concludere che il testo della Guerra, che è in uno stato molto migliore che quello delle Antichità, sia perfino meno sicuro di quanto avessimo potuto supporre.
    Nessuna delle varianti nel papiro comporta importanti differenze nel significato del testo, ma il fatto che il papiro (sebbene sia, naturalmente, pericoloso giungere a conclusioni sulla base di un cosi breve passaggio) concordi con un gruppo di manoscritti (Parisinus-Ambrosianus-Marcianus [PAM] group) e non con un altro (Vaticanus-Palatinus-Urbinas [VRC] group) ci induce a suggerire che sia pericoloso basarsi eccessivamente su un solo gruppo, come fece Niese con il PAM group.

    Una chiave per determinare l'autenticità del Testimonium è quella di esaminare il vocabolario e lo stile del passaggio. Un tale studio è stato realizzato da David L. Mealand [David L. Mealand, "On Finding Fresh Evidence in Old Texts: Reflections on Results in Computer-Assisted Biblical Research," Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 74, no. 3 (1992): 67-88.] LINK
    www.escholar.manchester.ac.uk/api/...RS-DOCUMENT.PDF

    Ά causa della brevità del Testimonium – solo 89 parole – Mealand usa tre criteri:

    1) Compara la fraseologia di Giuseppe nel Testimonium con il suo uso nel resto dei suoi lavori.
    2) Compara la sua fraseologia con quella della letteratura Greca in generale e dei primi testi Cristiani in particolare
    3) Esamina la complessità del linguaggio del Testimonium. Compara poi il passaggio con un passaggio non disputato di Giuseppe


    I criteri furono selezionati in un range molto vario e largo, che includeva lunghezza delle parole, uso dei pronomi relativi ed indefiniti, parole con l’ iniziale tau, e la posizione della prima preposizione nella frase.


    Basandosi su questi criteri, Mealand conclude provvisoriamente che la maggior parte (bulk) del passaggio su Gesù in Giuseppe è genuino.



    Nel determinare se il linguaggio del Testimonium è compatibile con il linguaggio usato altrove da Giuseppe, notiamo un problema con la prima parola, ginetai, tradotta sopra con "there lived" ma che grammaticalmente è un verbo al presente, letteralmente "there comes into being," "there is," "there lives," "there arises," or "there appears on the scene." Mentre Giuseppe usa il presente storico altrove per descrivere azioni nel passato, in questo contesto il presente indicativo è strano in quanto suggerisce che Giuseppe credesse Gesù ancora in vita.

    Il testo Slavo di Giuseppe omette il nome di Gesù. Una delle varianti testuali in uno dei manoscritti legge tis (a certain [ person]), ma sembra poco verosimile che uno scriba Cristiano abbia potuto aggiungere tis, che ha una connotazione irrispettosa, perfino sprezzante [così Paget, "Some Observations," 565, n. 105.]
    Oppure bisogna pensare che l'inserimento di questo tis possa non essere stato intenzionale e sia il frutto dell' errore di un copista.

    "If, indeed, one ought to call him a man” sembrerebbe una interpolazione Cristiana, poichè essa presuppone che Gesù fosse divino.

    La parola poiētēs (tradotta sopra come “one who wrought”), che è qui usata per gli atti di Gesù, è sempre utilizzata da Giuseppe per riferirsi ai poeti e mai con il significato che ha qui. Henry Thackeray attribuisce questo uso al fatto che in questa parte delle Antichità Giuseppe aveva un assistente che imitava lo stile di Tucidide [29 Henry St. John Thackeray, Josephus, the Man and the Historian (New York, 1929), 144.]

    Sebbene la parola didaskalos sia comune negli scritti di Giuseppe, intutti i casi salvo uno, (War 7.444), quando un genitivo segue la parola esso indica il contenuto dell' insegnamento piuttosto che l'identità dei destinatari dell'insegnamento. Qui invece esso indica l'identità dei destinatari dell'insegnamento.

    Ken Olson rimarca che tre frasi -"one who wrought surprising feats," "tribe of the Christians," and "still to this day"- ricorrono qui ed altrove in Eusebio e solo qui in Giuseppe. [30 Ken A. Olson, "Eusebius and the Testimonium Flavianum," Catholic Biblical Quarterly 61 (1999): 313.]

    Inoltre, una forma talēthē, nel senso di “la verità” si ritrova solo qui e in Antichità 8.23. Varie emendazioni sono state suggerite, in particolare paradoxōn, “strange, unusual things.”

    “He won over many of the Jews and many of the Greeks”: Hellēnikoū nel senso di “il popolo Greco" è usato da Giuseppe solo qui e in Guerra 2.268. Molti commentatori scrivono che un interpolatore Cristiano non avrebbe fatto una simile affermazione, poiché Gesù nei Vangeli insiste sul fatto che il suo insegnamento non è diretto ai non-Ebrei; d' altro canto, l'affermazione concorda con la convinzione di Eusebio che fosse raccontato che il messaggio di Gesù avrebbe raggiunto tutte le nazioni e che i suoi miracoli li avrebbero conquistati. [Eusebius, Historia ecclesiastica 1.2.23, 1.13.1.]

    Quanto è verosimile che un Ebreo impegnato possa aver scritto in tali positivi termini su Gesù e, in particolare, possa essersi riferito a lui come il Messia?

    J. Neville Birdsall sostiene che coloro i quali rigettano l'autenticità del passaggio stanno pensando secondo termini anacronistici appropriati per secoli successivi, quando cioè l'antagonismo tra gli Ebrei e i Cristiani divenne molto più teso, mentre durante il primo secolo, quando Giuseppe scrisse queste parole, i Cristiani erano un gruppo molto più ridotto e difficilmente potevano costituire una minaccia. [Neville Birdsall, “The Continuing Enigma of Josephus’s Testimony about Jesus,” Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 67, no. 2 (1985): 611–612.]
    LINK www.escholar.manchester.ac.uk/api/...RS-DOCUMENT.PDF

    Ά quel tempo, scrive, Giuseppe non era scettico sui miracoli e credeva nel compimento delle profezie. Birdsall va tanto lontano da suggerire che Giuseppe possa tranquillamente aver detto ai suoi contemporanei, specialmente ai suoi seguaci Ebrei, che Gesù era colui nel quale le profezie messianiche si erano compiute.
    Ά dire il vero, Giuseppe,da credente Ebreo, avrebbe difficilmente potuto negare la centralità di miracoli quali le piaghe d’Egitto, l’attraversamento del Mar Rosso, e le Rivelazioni al Sinai. Dall’altra parte, egli non volle esporsi al ridicolo per essere così credulone e insistette sul fatto che Mosè non scrisse nulla di irragionevole e che quindi tutto nelle Scritture era in sintonia con la natura dell' universo; in effetti, globalmente, egli tendeva a degradare i miracoli. [33 Louis H. Feldman, Josephus's Interpretation of the Bible (Berkeley, 1998), 210-212.]

    Quei commentatori che credono che il Testimonium contenga interpolazioni puntano a questa affermazione Ho Christos houtos ēn (He was the Messiah), e sostengono che Giuseppe, quale Ebreo, non avrebbe potuto affermare che Gesù fosse il Messia.

    Inoltre l’affermazione sembra fuori posto e disturba il flusso logico del passaggio. Se doveva apparire, ci si aspetterebbe che essa comparisse immediatamente dopo “Gesù” o “wise man” dove una identificazione complementare sarebbe stata presumibilmente più idonea. Ά dire il vero, storicamente, i Rabbi non consideravano Gesù come il Messia.
    Comunque, un secolo dopo Gesù, niente meno che il grande Rabbi Akiba riconobbe Bar Kokhba quale Messia, sebbene altri Rabbini non lo fecero.
    In più, la parola Christos (Messiah) ricorre anche in Antichità 20.200 (un passaggio che quasi tutti gli studiosi considerano genuinamente Flaviano) in connessione con Giacomo, il fratello del cosiddetto Christos, che chiaramente implica che egli sia stato menzionato precedentemente.

    C'è ragione di credere, nonostante gli sforzi di Marinus de Jonge, Jacob Neusner, Richard Horsley, e Haim Ben-Sasson che l'attesa di una figura messianica, che fosse essa definita o meno con il nome "Messiah," , fosse diffusa tra gli Ebrei.

    [34 Marinus de Jonge, "The Use of the Word ‘Anointed' in the Time of Jesus," Novum Testamentum 8 (1966): 132-148; Jacob Neusner, "Mishnah and Messiah," in Judaisms and Their Messiahs at the Turn of the Christian Era, ed. Jacob Neusner, William S. Green, and Ernest Frerichs (Cambridge, 1987), 265-282; Richard A. Horsley, "Messianic Movements in Judaism," in The Anchor Bible Dictionary, ed. David Noel Freedman et al. (New York, 1992), 4:791-797; Haim H. Ben-Sasson, "Messianic Movements," in Encyclopaedia Judaica ( Jerusalem and New York, 1971), 11:1417-1427.]

    In particolare, richiamiamo l‘attenzione sull'affermazione di Giuseppe che l'elemento che, più di ogni altro, incitò gli Ebrei alla guerra contro i Romani nel 66 fu
    "un ambiguo oracolo, verosimilmente inserito nelle loro sacre scritture, con l'effetto che a quel tempo uno proveniente dal loro paese sarebbe diventato sovrano del mondo” [35 Josephus, War 6.312.]

    Il fatto che Giuseppe dichiari che questo, più di ogni altra cosa, spinse gli Ebrei alla guerra, indicherebbe che esso era una convinzione forte e largamente diffusa. Che fosse, davvero, largamente insita sembra indicato dal fatto che una predizione simile è menzionata da Tacito che afferma che la maggioranza (pluribus) degli Ebrei era persuasa che "i loro antichi testi sacerdotali contenevano la profezia che questo era il tempo in cui l'Oriente sarebbe fortemente cresciuto e in cui uomini provenienti dalla Giudea avrebbero posseduto il mondo" [Tacitus, Histories 5.13.2.]

    Un'evidenza simile che una simile convinzione fosse largamente diffusa si ritrova in Svetonio il quale riporta che "si era diffusa in Oriente una vecchia e consolidata credenza per la quale alcuni uomini provenienti dalla Giudea erano destinati a dominare il mondo". [Suetonius, Vespasian 4.5.]

    Menahem, il leader dei Sicari, che apparve nel Tempio vestito con abiti regali, offre certamente l'aspetto di una figura messianica, così come l'Ebreo egiziano che con trentamila seguaci, propose di sopraffare la guarnigione Romana a Gerusalemme.
    Il fatto che, non molto dopo la Grande Rivolta, Lukuas-Andreas nel 115 e Bar Kokhba nel 132 comparvero come figure messianiche starebbe ad indicare che l’ anelito ad un Messia fosse persistente e ampiamente condiviso. [40 Victor A. Tcherikover, "Prolegomena," in Corpus Papyrorum Judaicarum, ed. Victor A. Tcherikover, Alexander Fuks, and Menahem Stern, vol. 1 (Cambridge, MA, 1957), 88.]

    Non ci può essere alcun dubbio che dal tempo di Giuseppe il nome di Davide fosse intimamente connesso con l'era messianica; [41 Feldman, Josephus's Interpretation, 538, n. 5.]
    Tuttavia Giuseppe rendendosi conto che la fede in un Messia ipso facto implicava la rivolta contro i Romani, omette ogni riferimento a Davide quale antenato del Messia. Il fatto che l’ iscrizione sopra la croce sulla quale Gesù è condannato a morire legga, con leggere variazioni, in ognuno dei quattro Vangeli (Matthew 27:37, Mark 15:26, Luke 23:38, and John 19:19) in greco, latino ed ebraico, "Questo è il Re degli Ebrei" indica il crimine per il quale Gesù fu accusato. Era un crimine politico, ossia, l'aver tentato di abbattere il governo di Roma e di stabilire uno stato indipendente con Gesù come re, similmente all' obbiettivo degli Zeloti e dei Sicari della generazione successiva.
    I Romani, che erano una minoranza nel loro stesso impero, erano costantemente nel timore di rivolte da parte di queste altre minoranze.
    L'agitazione ebraica per l'indipendenza culminò, una generazione dopo la morte di Gesù, con una rivolta che durò otto anni prima che fosse completamente sedata.

    L'affermazione che Gesù apparve vivo ai suoi discepoli dopo la sua morte, "perché i profeti di Dio avevano profetizzato queste e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui" è chiaramente un'espressione di fede.
    Essa deve essere un'interpolazione Cristiana perchè non c'è alcuna profezia di questo tipo prima del Nuovo Testamento. Andre Dubarle suggerisce di seguire la maggioranza dei vari testimoni indiretti del Testimonium fra i Padri della Chiesa [Andre M. Dubarle, "Le temoignage de Josephe sur Jesus d'apres la tradition indirecte," Revue biblique 80 (1973): 499.]
    Ma le decisioni degli studiosi non si costituiscono propriamente in questa maniera, specialmente perché molti di questi testimoni hanno semplicemente seguito i predecessori e non hanno quindi presentato una visione indipendente.

    Il passaggio si riferisce alla "tribù dei Cristiani" ma è poco verosimile che Giuseppe si riferisse ai Cristiani come una nazione, distinta dagli Ebrei e dai gentili. La parola "Christians" (Χριστιανῶν) non si trova in nessun altro passaggio delle opere di Giuseppe. La frase "tribe of Christians" si trova due volte nelle opere di Eusebio e in nessuna altra delle opere dei primi scrittori Cristiani. [Eusebius, Historia ecclesiastica 3.33.2, 3. Olson, "Eusebius and the Testimonium Flavianum," 312, n. 12, cites this as the reason that Solomon Zeitlin, "The Christ Passage in Josephus," Jewish Quarterly Review 18 (1928): 231-255, identifies Eusebius as the author of the Testimonium.]

    Inoltre il Testimonium nell'affermare che la "tribe of the Christians" è "so called after him" chiaramente implica che solo i Cristiani sono chiamati così in qualità di veri seguaci del Messiah Christos.



    C'è una sola frase nel Testimonium che, pur essendo stata notata da molti studiosi,



    εἰς ἔτι τε νῦν

    εἰς ἔτι τε νῦν


    non è stata sufficientemente enfatizzata, cioè, eis eti te nun (still to this day- fino ad oggi) in riferimento al fatto che "still to this day," "the tribe of the Christians, so called after him, has not disappeared."

    Questa breve frase, vorrei suggerire, potrebbe - ripeto, potrebbe - offrirci la chiave per l'intero puzzle in merito alla legittimità del Testimonium Flavianum.


    Tale chiave è adesso disponibile grazie alla compilazione realizzata negli ultimi decenni del Thesaurus Linguae Graecae, il dizionario completo di tutte le parole greche contenute in tutta la letteratura greca sopravvissuta.


    Ci si aspetterebbe che in un simile thesaurus una frase come questa apparisse non centinaia ma migliaia di volte, e che essa appaia frequentemente; ma il solo scrittore in questa intera collezione di molte migliaia di testi greci che usa questa frase con le parole in questo ordine, a parte Giuseppe, è Eusebio, nei cui scritti essa appare tre volte. Questa frase appare quindi essere una favorita di Eusebio e di nessun altro, almeno per quanto riguarda gli scrittori di quel periodo pervenutici.



    In totale, quindi, tre frasi -"who wrought surprising feats," "tribe of the Christians," and "still to this day" ricorrono altrove in Eusebio e in nessun altro autore. Un certo numero di studiosi, fra i più reputati Solomon Zeitlin, hanno sospettato che poiché Eusebio fu il primo scrittore ad includere il Testimonium, fosse stato proprio lui a scriverlo. [44 Zeitlin, “The Christ Passage in Josephus,” 251–255]


    D’altra parte il fatto che Eusebio quoti il Testimonium in tre forme differenti induce Joseph Kennard a concludere che se Eusebio fosse stato l'autore del Testimonium, egli non avrebbe quotato male se stesso. [45 Joseph S. Kennard, "Gleanings from the Slavonic Josephus Controversy," Jewish Quarterly Review 39 (1948-1949): 161-170.]



    Ma come ho affermato altrove, [46 Feldman, "The Testimonium Flavianum," 189.] Clemente di Alessandria, per esempio, quando cita fonti precedenti, varia costantemente il testo. Questo, di per se, non prova che il Testimonium fu fabbricato.

    Comunque, specialmente a causa del fatto che Eusebio era un grande polemista, un apologeta del Cristianesimo in due enormi opere contro il paganesimo, un fiero difensore della vita di Gesù quale compimento della profezia ebraica, uno dei maggiori interlocutori che risposero all’attacco che il filosofo Porfirio portò all'interpretazione Cristiana delle Scritture,

    un guerriero implacabile che tenta di dimostrare che i Cristiani furono i veri eredi del Giudaismo, uno dei maggiori difensori del controverso Origene, un attivista della controversia Ariana, una figura chiave del Concilio di Nicea e un protagonista della formulazione e della difesa del Credo Niceno, uno storico maggiore dei martiri Cristiani,

    successivamente il vescovo del centro chiave Cristiano di Cesarea, l'autore di un’ opera maggiore sull' imperatore Costantino quale sovrano del suo popolo, e il primo storico maggiore del Cristianesimo, deve essere stato molto disturbato dal fatto che nessuno prima di lui, fra tanti scrittori cristiani, avesse formulato anche solo un minuscolo sketch della vita e delle opere di Gesù.

    Conseguentemente, egli potrebbe essere stato motivato ad originare il Testimonium.




    Conclusione

    In generale, quando la tradizione manoscritta è unanime o quasi unanime, noi la seguiamo .Il TF appare in tutti i manoscritti esistenti delle Antichità, ma i più antichi di questi datano solo dell'undicesimo secolo. Il TF, inoltre, appare in tutti i numerosi manoscritti della traduzione Latina che fu fatta sotto la direzione di Cassiodoro nel sesto secolo. Bisogna anche tener presente che Eusebio, il primo scrittore che quotò il TF, lo fa in tre delle sue opere, ogni volta con leggere variazioni. Possiamo suggerire che se Eusebio stava quotando un passaggio così importante, dove ogni frase era soggetta ad interpretazione, egli non avrebbe rischiato di modificarlo, neanche con delle piccolissime variazioni. Inoltre rileviamo che quando un Arabo Cristiano, Agapius, si riferisce al TF nel decimo secolo, egli omette la linea ""if, indeed, we ought to call him a man," omette riferimenti ai miracoli di Gesù, omette il ruolo dei leaders Ebrei nell' accusare Gesù, non riporta che Gesù apparve ai suoi discepoli il terzo giorno ma che essi riportarono ciò, e egli non dichiara che Gesù fosse il Messia ma piuttosto che egli era forse il Messia. Come avrebbe potuto un Cristiano prendersi tali libertà con un così importante ed ufficiale passaggio?



    . Contro la convinzione che il TF fu scritto da Giuseppe c’è il fatto che nonostante la forte opposizione dei pagani e degli Ebrei sui temi teologici e nonostante gli scontri con la comunità Cristiana durante i primi tre secoli, compresa la risposta di Giustino Martire nel secondo secolo all’accusa che Gesù non fosse esistito, ci sono otto padri della Chiesa che vissero prima del quarto secolo e che menzionano Giuseppe ma che tuttavia non riferiscono questo passaggio. Perfino l'estremamente prolifico ed influente Origene che fu profondamente coinvolto in controversie concernenti la natura di Gesù che conosceva Giuseppe molto bene, come indicato dal fatto che cita le Antichità sette volte, non cita il Testimonium. Al contrario, Origene si meraviglia che Giuseppe non credesse alla messianicità ed alla divinità di Gesù. Schreckenberg ammette che è difficilmente possibile determinare con certezza quali corruzioni del testo di Giuseppe siano dovute ad Origene stesso e quali siano dovute ad una fonte intermedia che Origene potrebbe aver utilizzato in buona fede.



    In entrambi i casi l’osservazione che la trasmissione fu aggiustata o addirittura falsificata per ragioni apologetiche è valida. In questa connessione, dovremmo tener presente il metodo di lavoro di Origene, e cioè che egli dettava i suoi lavori ad almeno sette stenografi alla volta, e che il testo dettato era poi riprodotto da un numero identico di scribi. Infine, troviamo una sorta di caso simile di una interpretazione cristianizzata di Giuseppe nel trattamento Cristiano di Filone che, secondo Jerome, incontrò Pietro a Roma,strinse un amicizia con lui, e fu pertanto favorevolmente disposto nei confronti dei seguaci di Marco discepolo di Pietro. In conclusione, c’è ragione di pensare che un Cristiano come Eusebio avrebbe cercato di ritrarre Giuseppe come più favorevolmente disposto verso Gesù e potrebbe certamente aver interpolato un brano come quello che si trova nel Testimonium Flavianum.



    Ribadito che questo articolo di Feldman veicola una numerosa serie di spunti di riflessione che meriterebbero di essere debitamente approfonditi (e mi riprometto nell’ambito di questa discussione di farlo) vorrei provare a “rileggere” questo fondamentale passaggio di FG inserendolo “prepotentemente” in quel contesto/modello che ho ridefinito “ipotesi messianista” sulle origini del cristianesimo.

    Questo modello (pattern) che si nutre di quel ricco cluster di “tradizioni” testuali indiscutibilmente (e stranamente) presenti nelle attuali versioni dei Vangeli, resta, secondo me, la matrice più opportuna e più fertile sulla quale elaborare una spiegazione delle origini del cristianesimo che abbia al contempo maggior grado di plausibilità storica (criterio metodologico che dopo essere stato per decenni molto “svalutato”, sembra riprendere quota nel mondo specialistico), e maggiore capacità di includere, anche in maniera “semplice” il maggior numero di elementi (alcuni dei quali rimasti da sempre “isolati” in quanto apparentemente avulsi dal quadro generale recepito se non in palese, inconciliabile contraddizione con esso).

    E’ evidente che, come ottimamente ricordato anche da Feldman, i sostenitori di una ricostruzione “non ortodossa” delle origini del cristianesimo, abbiano sempre mirato ad affermare la totale inautenticità del TF o quanto meno una sua violenta manomissione realizzata attraverso opportune ed ideologiche interpolazioni cristiane su un testo di base nel quale FG senza arrivare a quelle affermazioni (per lui impossibili) aveva comunque vidimato l’esistenza e soprattutto la continuità che quel personaggio aveva generato (ritengo, restando in questa chiave di lettura, che quest’ultimo sia probabilmente l’elemento che più abbia motivato l’eventuale “rielaborazione” cristiana del testo Flaviano, ovvero la necessità da epoca posteriore di riempire un lontano topos spazio-temporale delle origini, storicamente diverso, proiettandovi quella costruzione mitica che intanto si era riusciti ad imporre quale storia reale)



    Ora il punto che mi sembra rilevante è che questa impostazione del problema mi pare sia stata scaltramente sfruttata (se non pilotata) proprio da quei sostenitori del “paradigma ortodosso”, ossia da coloro i quali da duemila anni tendono ad affermare con forza che i fatti siano sostanzialmente andati, fin dall’inizio, così come i testi interni alla tradizione teologica ci raccontano.


    In fondo, “incanalare” una polemica sul TF su una sua parziale o totale autenticità, “concedere” eventuali interpolazioni, mettere in brackets interi pezzi di un testo di per sè già breve, lasciando sornionamente inalterata la “verità” che un importante storico ebreo abbia vidimato l’esistenza (e, ripeto, soprattutto il fatto essenziale che quel personaggio abbia ingenerato una continuità di fede e di appartenenza che ne diventa a sua volta paradossalmente garanzia di esistenza e di “consistenza”) di un certo “Gesù”, risulta un ottimo prezzo da pagare pur di incassare una sottile ma fondamentale vittoria.


    Quella di diffondere, anche su profonde basi psicologiche, la senzazione che “quel Gesù” sia realmente esistito, al di là della percezione che lo stesso FG abbia potuto averne. E ottenuto questo risultato si campa di rendita per secoli fino a quando, cominciate le polemiche critiche ci si è potuti rintanare in una difesa che, pronta a riconoscere talune esagerazioni ascrivendole con generosa convenienza alle marachelle teologicamente ipetrofiche di qualche autore che, colmo di pie intenzioni ha voluto strafare, permette di arroccarsi agevolmente su una questione di percezione più o meno chiara da parte di Flavio Giuseppe.


    Il problema, quindi, non è più la sostanza di fondo, e cioè cosa davvero aveva probabilmente riportato FG (il TF originario) ma, ferma restando la verità storica autonoma (figlia della successiva storicizzazione di un teologumeno), quale possa esserne stata la reale percezione di FG.


    Ecco che in maniera anche semanticamente subdola un probabile brano di una vasta opera di FG nella quale l’autore tanto aveva narrato (seppur in chiave fortemente ideologica) delle complesse vicende messianiche (o pseudo-tali) ebraiche dell’epoca, diventa di base un TESTIMONIUM, ossia un cogente ed ineluttabile riscontro che FG si deve di offrire, fosse anche sospendendo la sua linea narrativa più generale, ad una Verità che, per quanto gli possa piacere o meno, è ineludibile in quanto, che lo abbia compreso a pieno o solo in parte, che lo abbia accettato o rifiutato, segna finalmente ed incontrovertibilmente il Vero compimento del disegno divino…ebraico.
    E se non lo ha compreso ed accettato, poco importa. L’importante che, anche da "miscredente", lo abbia TESTIMONIATO. Altri, dopo di lui, ma anche prima di lui, avranno saputo spiegare alle masse che quanto, anche da lui, riportato, era, è, e sarà la Verità indiscutibile.

    Ora se io da detrattore di questa “ricostruzione dei fatti” mi ponessi in un paradigma squisitamente e totalmente MITICISTA, sostenendo per esempio la totale inesistenza di Gesù quale figura storica reale, e di riflesso la totale non autenticità del TF, i miei avversari avrebbero gioco facile ad utilizzare (quando gli conviene ne fanno il miglior uso…) quei parametri di storicità che innegabilmente “colorano” questa storia.



    In altre parole gli elementi storici, pur frammentari, che appartengono senza dubbio al sostrato originario che sono stati così abili a riplasmare, sarebbero sventolati ad arte per dimostrarmi quanto è ridicola la mia pretesa che il loro Gesù sia il parto di una completa (e quanto difficile da realizzare…) invenzione.
    Ecco perché, tante volte, ho sostenuto che, senza volerlo, i miticisti puri e duri hanno finito per avvantaggiare il compito di chi dall’altra parte si batteva per mantenere in vita una costruzione teologica non banale.


    La realtà, mi si perdoni il gioco di parole, è che in questa storia il mito c’è, ma viene dopo. Prima c’è la Storia, di cui il Mito Incarnatore si è fatto carnefice…
    Se da un lato il “paradigma ortodosso” non può avere consistenza storica perché è fatalmente dipendente da troppe variabili anistoriche, dall’altro il “paradigma mitista” puro è altrettanto discutibile perché nel tentativo di smascherare il primo finisce per "mitizzare” anche quegli elementi che onestamente sembrano possedere un elevato grado di plausibilità storica.


    Ecco che, una volta di più, in medio stat virus…

    Un modello che si sforzi di “separare quello che Dio ha (falsamente) unito” , che infranga un fuorviante “matrimonio mistico” fra tante prosaiche verità storiche e una capziosa visione metastorica della realtà.

    Questa è l’ineludibile necessità di chi voglia realmente recuperare una passabile ed affidabile sequenza evenemenziale.



    Nel caso specifico, mi sembra evidente che l’ “ipotesi messianista” , almeno nella versione che io considero più probabile preveda quanto segue:

    1) Il cristianesimo del primo secolo e di parte del secondo non è altro che una componente particolare di un variegato messianismo ebraico che sarà teso fino alla sconfitta finale di Bar Kocheba alla redenzione(liberazione) del popolo d’Israele. La componente che mi pare più fondante di questo particolare messianismo è quella Millenaristica. Nessuna delle caratteristiche che prenderà dopo (e a causa del)la rielaborazione mitico- teologica che comincia a mettersi in moto dopo il primo secolo, è presente nel primo secolo.

    2) Il corpus neo-testamentario è assolutamente assente dal panorama del primo secolo. In modo particolare la letteratura Paolina e gli Atti degli apostoli sono prodotti posteriori ai vangeli. Il Paolo del cristianesimo postumo è creatura mitologica o nella migliore delle ipotesi (che io prediligo) rielaborazione “a rovescio” di una figura storica del primo secolo.

    3) Il giudeo-cristianesimo “narrato” dai testi cristiani e non e come tale vidimato dagli specialisti è, anch’esso, una mera invenzione postuma, figlia dell ‘operazione teologica madre. Si tratta della comprensibile esigenza di retroproiettare la propria nuova mitologia-teologia in un tempo ed uno spazio originario (quello palestinese del primo secolo) che seppur non più centrale al momento in cui questa operazione viene realizzata, ha il potente valore di “fondare un’origine”, per poter dire “c’eravamo, così come siamo, fin dall’inizio”.

    La storia reale della Palestina del primo secolo è invece stata tutt’altra cosa ed i suoi protagonisti erano pervasi di ebraicità. (su questo punto fondamentale il recente, parziale e ancora debole recupero storiografico dell’ebraicità del Cristo, non ha ancora fatto scaturire una discussione, che pure ne sarebbe logica conseguenza, sulla ebraicità del cristianesimo originale.

    Purtroppo mi è pessimisticamente chiaro che se, da un lato, un formale, generico e ruffianamente catartico riconoscimento di una realtà evidente, da sempre, a tutti, (“Gesù era un ebreo”) può in questa fase storica essere “generosamente” concesso, dall’altro canto cosa ben diversa e molto più insidiosa sarebbe quella seria conseguenza e cioè una volta ammesso che “Gesù era un ebreo” chiedersi che tipo di ebreo egli fosse, visto che gli Ebrei dell’epoca non erano (come non lo sono oggi) robot programmati ma persone con un’ autonomia ed una varietà di pensiero ben più ricca di quanto a certi storici esponenti di una assurda accusa di deicidio ha fatto comodo credere e far credere.

    Per quanto concerne la questione del TF, alla luce della lunga premessa fatta, e degli elementi concreti a nostra disposizione, il paradosso di quel “era il Messia” attestato dalla lezione presente nelle citazioni di Eusebio (e che probabilmente è servita da base per l’archetipo greco che poi ha originato la famiglia di manoscritti definitiva delle Antichità Giudaiche – stabilità della tradizione manoscritta) congiuntamente alla “diversa attestazione” che Origene con la sua strana parafrasi ci ha lasciato, mi spingono ad avanzare il sospetto che il tutto si potrebbe leggere in maniera molto differente.

    Io credo che FG abbia scritto a Roma in un contesto in cui, come detto, il cristianesimo che oggi conosciamo non era ancora stato “inventato”. Credo quindi che FG abbia scritto, in coerenza con le linee guida (ideologiche) che si era dato, qualcosa a proposito di un presunto (uno dei tanti) pseudo-messia ebrei (il “TF originale”) Credo che lo abbia descritto con gli stessi toni sprezzanti, critici, negativi (forse anche sarcastici) che in linea generale utilizzava per questi personaggi ai quali, in fondo, addebitava la sorte tragica subita dal suo popolo. Un TF scritto in un periodo in cui quello pseudo-cristo, falso messia finito in croce non era stato ancora teologicamente trasformato nel Cristo “Gesù” fortemente degiudaizzato che comparirà progressivamente a partire dal secondo secolo. Un periodo in cui, per l’appunto i Romani non avevano da fare insensate differenze tra ebrei e cristiani quanto piuttosto tra ebrei accomodanti e/o collaborazionisti ed ebrei messianisti.

    Credo plausibile ipotizzare che Origene abbia potuto leggere una versione del TF, se non originale, sicuramente molto più vicina ad esso di quanto non sarà posteriormente. E che questa versione conservasse in luogo di quel paradossale “ERA IL MESSIA” qualcosa come (ALCUNI LO CONSIDERARONO/CREDETTERO CHE) ERA IL MESSIA. (“CREDEBATUR ESSE” , “HE WAS THOUGHT TO BE THE MESSIAH”)

    Questa versione letta da Origene in un periodo in cui la tradizione manoscritta di FG non era ancora caratterizzata da quella Stabilità formalmente accertata da Eusebio in poi (e che viene a mio avviso impropriamente utilizzata da molti specialisti quale prova regina della autenticità anche parziale di quella versione del TF, a prescindere dalle interpolazioni quali “era il Messia” ) spinse ovviamente lo stesso Origene a dire che FG non lo riconosceva come Messia. Vale a dire in parole semplici che Origene ci porta testimonianza del fatto che FG pur parlando di “Gesù” (e quindi probabilmente di chi era e di come fu considerato da alcuni altri ebrei) ripudiava proprio per quelle sue caratteristiche da falso-profeta nemico del Tempio ed anti-romano, una sua presunta messianicità.

    Purtroppo non mi sembra neppure casuale che mentre in Eusebio si trovino delle citazioni, in Origene resti esclusivamente una ambigua parafrasi.

    Fra le altre cose questa ipotesi darebbe anche un senso compiuto al passaggio di Antichità XX nel quale FG si riferirebbe al Giacomo fratello di Gesù chiamato Cristo, dove il senso di quel “chiamato” lungi dal collimare con il distorto “era il Messia” sarebbe decisamente più compatibile con il "Credebatur esse/fu considerato" della Tradizione manoscritta latina e del Testimonium arabo di Agapius. La Tradizione manoscritta latina in effetti non sarebbe da vedere quale risultanza di una improbabile volontà di stemperare una lezione greca ritenuta troppo forte, quanto invece la residua memoria di un ramo pre-archetipico che conservava una lezione del TF più vicina all’originale e sicuramente simile se non corrispondente a quella letta da Origene.

    Se questa ipotesi fosse valida, sarebbe a mio avviso logico il silenzio di altri autori cristiani (pre e post origeniani) i quali, a differenza di Origene, e forse maggiormente consapevoli dell’operazione teologica in corso sul personaggio reale che si era distinto per la sua stretta, rigorosa, zelante adesione ad un diffuso ideale messianico di redenzione del suo popolo, non “commisero l’errore strategico” di tirare in ballo, commentandolo, il pericoloso passaggio Flaviano. Ritenendo a giusto titolo e con sagace prudenza che non erano ancora maturi i tempi in cui una più consolidata “nuova creatura gesuana” (frutto di un processo più spinto di degiudaizzazione che ne avesse maggiormente stemperato l’iniziale e potenzialmente pericolosa coesistenza/persistenza della memoria della originaria “matrice messianista ebraica”) avrebbe permesso una fase successiva del processo.



    Fase che poi sarebbe arrivata allorquando qualcuno poco prima di Eusebio (o lo stesso Eusebio) complice una diversa e ben più profonda intersecazione della “nuova religione" cristiano-paolina con il sempre più decadente Impero Romano, avrebbe finalmente provveduto ad un definitivo accomodamento dell’ opera Flaviana ed in particolare ad una edizione definitiva del TF. Finalmente Flavio Giuseppe poteva “confessare” che questo Gesù fosse il Messia.



    Mi preme chiudere con una considerazione che non ha mai avuto il giusto peso. sovente si è polemizzato contro chi tenta di rivedere le origini del cristianesimo postulando interpolazioni anche pesanti nel testo delle opere di autori antichi, in modo particolare nel caso di Flavio Giuseppe. Nella quasi totalità dei casi si è violentemente deriso chi praticava questa ipotesi, adducendo che era davvero grottesco pensare che a quell'epoca si potesse riuscire ad orientare un testo inserendo delle varianti significative ed interessate data l'enorme difficoltà di controllare/censurare tutte le copie esistenti.



    Trattasi di un mito senza valore. Il caso di Origene, quale che sia la sua corretta definizione, dimostra a mio modo di vedere, in maniera rigorosamente scientifica, che sensibili variazioni di contenuti fossero assolutamente possibili, almeno nella fase iniziale e cioè prima che la forte spinta di un particolare testo archetipico non venisse a renderne più difficile (ma non impossibile) la realizzazione.

    Edited by barionu - 2/6/2014, 21:58
  13. .
    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA



    Coda del Drago e Testa del Drago hanno le stesse lettere , con


    UAAH !


    : è il perno dei due Draghi .

    lo identifico nell' imperativo , tziwwuy , del verbo vivere , licheot ,, in binyan qal .

    VIVETE ! (C)HAYU !



    חֲיוּ






    Guardate :

    LO YAG SOTOT ALCHEMICO



    ouroborus


    www.larosenoire.it/index.php?page=l_azoto_degli_alchimisti



    Nessun dubbio che i mostri di Lovecraft abbiano un preciso riferimento Alchemico .


    Alcune tracce mi portano all' opra di Raimondo Lullo e a Tritemio .


    Sto cercando:

    http://originidellereligioni.forumfree.it/?t=62782268




    zio ot :B):

    Edited by barionu - 4/6/2013, 18:40
  14. .
    Attenzione, una cosa che non salta mai in evidenza è che la Sindone , quando era a Lirey , era bollata come un falso

    proprio da una bolla papale


    www.cicap.org/new/articolo.php?id=272852




    Riporto il passo in questione. E' preso dalla Bolla di Clemente VII (papa avignonese che aveva giurisdizione in Francia, poi classificato come antipapa) del 6 gennaio 1390, indirizzata al capitolo di Lirey, cioe' al decano e ai canonici della chiesetta di Lirey dove la Sindone veniva esposta. Il papa istruiva i canonici su come e a quali condizioni potevano esporre la Sindone. Contemporaneamente il papa scriveva anche al vescovo di Troyes e agli ufficiali della zona che dovevano sorvegliare sull'applicazione delle norme emanate.


    Il documento fu pubblicato dal canonico Ulysse Chevalier in appendice a suoi studi storici apparsi nel 1900 e nel 1903. Io ho ricopiato il passaggio da un articolo di qualche anno fa di monsignor Victor Saxer, rettore dell'Istituto pontificio d'archeologia cristiana: Victor Saxer: La Sindone di Torino e la storia, Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno XLIII, I, 1989, p. 51-79 (Vedi a p. 63; in bibliografia sono citati i lavori originali di Chevalier.)



    «Nos igitur circa modum ostensionis huiusmodi, ad omnem erroris et ydolatrie materiam submovendam, de oportuno remedio providere curantes, volumus et tenore presencium auctoritate apostolica statuimus et ordinamus quod, quotienscumque contigerit, decanus et capitulum predicti et alie persone ecclesiastice huiusmodi figuram seu representacionem ostendentes et in huiusmodi ostensione presentes, quandiu ostensio ipsa durabit, capis, superpelliciis, albis, pluvailibus vel aliis quibuslibet indumentis seu paramentis nullatenus propterea induantur, nec alias solemnitates faciant, que fieri solent in reliquiis ostendendis; quodque preterea torticia, facule seu candele minime accendantur, nec luminaria quecumque ibidem adhibeantur; quodque ostendens dictam figuram, dum maior ibidem convenerit populi multitudo, publice populo predicet et dicat alta et intelligibili voce, omni fraude cessante, quod figura seu representacio predicta non est verum sudarium Domini nostri Jhesu Christi, sed quedam pictura seu tabula facta in figuram seu representacionem sudarii quod fore dicitur eiusdem Domini nostri Jhesu Christi.»




    «Non ho al momento sottomano una traduzione ma il senso appare chiaro. Noi, cioè il papa, stabiliamo e ordiniamo che il decano e il capitolo (cioè il clero della chiesa) e altre persone ecclesiastiche che ostendono (mettono in mostra) la "figuram seu representacionem", figura o rappresentazione, non devono indossare, per la durata dell'ostensioine, "capis, superpelliciis, albis, pluvailibus vel aliis quibuslibet indumentis seu paramentis", cioè un elenco di paramenti da cerimonia, né fare altre solennità, di quelle che si è soliti fare nelle ostensioni delle reliquie. Viene anche specificato che non si accendano torce, fiaccole o candele né altri lumi. Poi dice che quando il popolo si raduna, si deve proclamare e dire al popolo "con voce alta e intelligibile, per far cessare ogni frode, che la suddetta figura o rappresentazione non è il vero sudario di Nostro Signore Gesù Cristo, ma una 'pictura seu tabula', pittura o quadro, fatta come figura o rappresentazione del sudario" che fu di Gesù Cristo.

    «I sindonologi cavillano sui termini usati e dicono che "figura seu representacio" non implicherebbe che si tratti di una immagine artificiale, mentre non possono negare che "pictura seu tabula" richiama per forza un'opera pittorica. Danno peso al fatto che in una copia messa in archivio presso l'archivio papale mesi più tardi, un funzionario o addetto cancellò le parole "pictura seu tabula". Ma il testo diffuso in gennaio e pervenuto ai destinatari non aveva la cancellazione. Inoltre la parte più significativa del contenuto della bolla non è tanto nelle particolari parole usate per designare la Sindone, ma nel fatto che si proibiscono cerimonie solenni, tanto da impedire che i preti si vestano da cerimonia e accendano lumi, e nel fatto che viene ordinato di dire ad alta voce al popolo, per far cessare ogni frode, che quello non è il vero sudario del Signore. I sindonologi non dicono che nella copia per l'archivio sia stato cancellato tutto questo.


    Comunque qualsiasi correzione tardivamente apportata sulla copia d'archivio era ininfluente perché la copia restava in archivio ad Avignone e non sarebbe mai stata vista dai destinatari a Lirey o a Troyes. Aggiungerei per una precisazione. Il fatto che un papa, o antipapa, abbia detto che la Sindone non è quella vera, non ha alcun peso nel dibattito sull'autenticità. Cioè non è da prendere come elemento di evidenza contro l'autenticità. A quell'epoca, le chiese erano piene di reliquie e ce n'erano in giro innumerevoli, comprese le più assurde. I papi approvavano tutte quelle reliquie senza discriminare le vere (posto che ce ne fossero) dalle false e senza alcuna verifica. Quindi non era nelle premure di un papa l'esame o l'indagine su una qualsiasi reliquia per verificarne l'autenticità.

    Clemente VII (o il suo funzionario avignonese che redasse il testo della bolla) non aveva mai visto la Sindone, non era mai stato a Lirey, né vi aveva inviato un suo emissario, e non aveva condotto alcuna indagine. In quella occasione, il problema per il papa era che a Lirey e a Troyes (Lirey era nella diocesi di Troyes) era in corso una disputa. Il vescovo di Troyes voleva impedire le ostensioni. I canonici della chiesa di Lirey e il signorotto locale (che era un parente alla lontana dello stesso papa) volevano tenere le ostensioni (che portavano denaro con l'afflusso dei fedeli).

    Il papa risolse la disputa con un compromesso. Permise le ostensioni, accontentando così i canonici e il signorotto di Lirey, e in seguito approvò anche che venissero concesse indulgenze (che erano quelle che fruttavano più denaro) a chi visitava la chiesa.

    «Contemporanemente, per dare un contentino al vescovo e per salvare in qualche modo la faccia, diede ordine che si tenessero le luci basse e non ci si vestisse in pompa magna e si dicesse al popolo che quella era una "pictura seu tabula". Insomma diede ai canonici la sostanza, cioè il permesso di tenere le ostensioni con conseguente afflusso di fedeli e di offerte, e al vescovo lasciò soltanto la forma. Piuttosto ci si può chiedere come mai il vescovo di Troyes si opponesse alle ostensioni.

    Lo stesso vescovo, che si sappia, non si opponeva alle altre reliquie che dovevano esserci numerose nelle varie chiese della sua diocesi o nella stessa sua cattedrale. Se per quella volta si oppose, dovevano esserci motivi particolari. Un motivo potrebbe essere che c'erano rivalità o diatribe a livello personale fra lui e quelli di Lirey, ma non ne sappiamo niente. Un altro possibile motivo, che mi sembra verosimile, è che il vescovo di regola non si preoccupava delle tante reliquie false, ma in questo caso aveva di che preoccuparsi perché la Sindone non era conforme ai Vangeli e poteva suscitare perplessità fra i fedeli che sapessero leggere i testi sacri. I Vangeli nominano bende o sudario sepolcrali ritrovati nel sepolcro vuoto, ma non dicono che ci fosse sopra un'immagine, ciò che, si supponeva, difficilmente avrebbero taciuto se un'immagine c'era.

    «Se poi è vero, come lo stesso vescovo scrisse in un memoriale per il papa, che un vescovo suo predecessore aveva scoperto la frode (oltre trent'anni prima) e aveva addirittura individuato l'artista, reo confesso, che aveva eseguito l'immagine, allora la cosa poteva essere risaputa nella diocesi e sarebbe stato imbarazzante non tenerne conto (senza contare che il vescovo poteva pure sentirsi in dovere di intevenire semplicemente per sua onestà)».

    Gian Marco Rinaldi
  15. .
    Uno dei capolavori di Lovecraft .


    LA PAURA IN AGGUATO














    L’ombra sul camino L’aria era gonfia di tuoni la sera in cui mi recai alla rocca abbandonata in cima al monte delle Tempeste, in cerca della paura in agguato.

    Non ero solo, perché in quei tempi la mia folle temerarietà non si mesceva ancora a quell’ansia per il grottesco e il terribile che ha trasformato la mia esistenza in una continua ricerca degli orrori più inconsueti, nella fantasia come nella realtà.

    Avevo con me due fidati e robusti compagni che avevo fatto venire quando era giunto il momento opportuno: uomini che da tempo mi affiancavano nelle mie esplorazioni più rischiose, dal fisico adatto a quel genere di imprese.

    Ci eravamo allontanati nascostamente dal villaggio, evitando di attirare l’attenzione dei giornalisti che ancora si aggiravano nella zona dopo le vicende terrificanti del mese prima: l’incubo della morte strisciante.

    Pensai che forse mi sarebbero stati utili in seguito, ma in quel momento non li volevo attorno.

    Avesse voluto Iddio che qualcuno di loro mi avesse accompagnato nella ricerca! Almeno, non avrei dovuto sostenere da solo, e per tanto tempo, il peso della verità.

    Una verità che ho dovuto tenere in me per timore che il mondo mi avrebbe giudicato folle se l’avessi rivelata, o che sarebbe a sua volta sprofondato nella follia per le infernali implicazioni della mia scoperta.

    E adesso che ho infine deciso di parlare per evitare che i corsi e ricorsi continui del pensiero facciano di me un maniaco, mi pento di aver tanto atteso.

    Perché io, e io soltanto, so quale sorta di terrore si celi in agguato su quel monte spettrale e desolato.

    A bordo di una piccola automobile, traversammo chilometri di colli e foreste primordiali, fino a raggiungere il limite del bosco.

    Immersa nel buio della sera e spoglia delle frotte di curiosi abituali, la campagna d’attorno appariva più sinistra del solito, tanto che fummo più volte tentati di accendere i fari all’acetilene, pur sapendo che avremmo potuto attirare l’attenzione di qualcuno.

    Tramontato il sole, il paesaggio appariva desolato e inquietante, e sono convinto che la sua livida apparenza mi avrebbe ugualmente turbato anche se non avessi conosciuto il terrore che vi si annidava.

    Non si vedeva alcun animale selvatico: sono creature sagge, e sanno bene quando la morte è vicina, spiando con occhi torvi.

    Gli alberi secolari, spaccati dai fulmini, apparivano mostruosamente enormi e contorti, e il resto della vegetazione era fitta e avvinghiata su se stessa in modo innaturale.

    Tutto intorno, crepacci e tumuli nel terreno lacerato dalle folgori e invaso dalle erbacce, disegnavano nell’ombra sembianze di serpenti e teschi umani ingranditi a proporzioni gigantesche.

    Sul monte delle Tempeste, la paura era in agguato da più di un secolo.

    Era un fatto che avevo appreso dai giornali, dopo la catastrofe che per la prima volta aveva dato notorietà a quella regione.

    L’epicentro dell’orrore era un picco remoto e solitario in una zona dei Catskill (2), dove la civiltà olandese, penetratavi in modo superficiale e transitorio, s’era lasciata alle spalle nient’altro che poche masserie diroccate e una popolazione miserabile al limite della degradazione, i cosiddetti squatter, incrostati in squallidi villaggi di casupole sui dirupi isolati.

    La gente normale si guardava bene dall’avvicinarsi alla località, almeno prima che vi fosse istituita la polizia di Stato.

    Anche adesso, tuttavia, i poliziotti a cavallo la perlustravano soltanto sporadicamente.

    Chi invece è di casa nei villaggi disseminati su quei monti, è la paura, che costituisce uno dei principali argomenti di conversazione di quella povera gente ignorante, nelle occasioni in cui qualcuno di essi lascia le vallate per vendere qualche cesto intrecciato a mano in cambio di quei pochi generi di prima necessità che non potevano procurarsi con la caccia o l’allevamento del bestiame.

    Il luogo geometrico del terrore era la residenza abbandonata dei Martense, fuggita da tutti, che dominava dall’alto le pendici che, gradatamente, portavano ad una cresta sulla quale era situata un’altura, la cui tendenza ad essere flagellata dai temporali le aveva fatto guadagnare il nome di monte delle Tempeste.

    Da più di cent’anni, l’antica dimora di pietra chiusa nei boschi era al centro di racconti vaghi e spaventosi, tessuti attorno a un pericolo silenzioso che in estate strisciava fuori dal suo nascondiglio, dilagando all’intorno.

    Con ottusa insistenza gli abitanti dei miseri villaggi raccontavano di un demone che, dopo il tramonto, aggrediva i viandanti solitari portandoli via con sé o abbandonandoli dilaniati sul terreno.

    Talvolta i montanari accennavano anche a tracce di sangue che conducevano verso il maniero abbandonato.

    Secondo alcuni, erano i tuoni a richiamare la paura in agguato inducendola ad uscire dalla sua tana; altri aggiungevano che il tuono era la sua voce.

    Ma la gente che viveva al di fuori di quelle fitte foreste non aveva mai dato credito a quelle voci diverse e contraddittorie, né alle incoerenti e stravaganti descrizioni del demone appena intravisto.

    Eppure, nella zona, non vi era fattore o abitante dei villaggi che dubitasse del fatto che la dimora dei Martense fosse infestata da una entità demoniaca.

    La storia locale non dava adito a dubbi, anche se i curiosi che avevano visitato il castello spinti dal racconto particolarmente colorito di qualche squatter, non avevano mai trovato alcuna traccia della presenza spettrale.

    Le donne più anziane raccontavano di strane leggende relative al demone dei Martense; leggende che riguardavano la stirpe stessa dei Martense, la peculiare disuguaglianza cromatica degli occhi che si tramandava ereditariamente da un membro all’altro della famiglia, l’anomala longevità, e il delitto all’origine della maledizione sul loro nome.

    Il terrore che mi aveva portato sul luogo sembrava l’inattesa e portentosa conferma delle più stravaganti leggende dei montanari.

    In una notte d’estate, dopo un temporale di violenza inaudita, l’intera popolazione delle campagne lì intorno fu destata dalla fuga impetuosa degli squatter, provocata da qualcosa di più concreto di una pura illusione.

    Folle sconvolte di montanari raccontarono urlando e piangendo che un orrore senza nome si era abbattuto su di loro, e nessuno dubitò della loro parola.

    Non lo avevano visto, ma da uno dei villaggi erano giunte grida strazianti dalle quali avevano compreso che la morte strisciante era arrivata.

    La mattina seguente, gruppi di cittadini e di poliziotti seguirono i montanari terrorizzati fino al luogo nel quale dicevano fosse discesa la morte.

    E la morte vi era davvero! Il terreno sottostante uno dei villaggi era franato in seguito allo scoppio di un fulmine, distruggendo parecchie delle casupole maleodoranti.

    Ma i danni alle cose apparivano insignificanti rispetto alla strage degli esseri umani: dei settantacinque abitanti del villaggio non ne rimaneva più alcuno.

    Il suolo dissestato era cosparso di sangue e di resti umani che testimoniavano in maniera fin troppo cruda lo strazio prodotto dalle zanne e dagli artigli del demone.

    Nessuna traccia visibile si allontanava tuttavia dal luogo della carneficina.

    Tutti concordarono nell’attribuire il massacro a una belva immonda, e nessuno osò rilanciare l’accusa che tal genere di morti misteriosi fosse frutto dei sordidi delitti tipici delle comunità degenerate.

    L’accusa fu riproposta soltanto quando si appurò che circa venticinque dei settantacinque presenti abitanti del villaggio non figuravano nel conto dei cadaveri.

    Ma, anche in tal caso, l’ipotesi che cinquanta persone potessero essere state uccise in modo così orribile da un numero di assassini inferiore a loro della metà, appariva poco plausibile.

    C’era solo un fatto incontestabile: in una notte d’estate, un fulmine era piombato dal cielo e aveva lasciato un intero villaggio senza vita, disseminato di cadaveri straziati, storpiati e dilaniati.

    Benché il villaggio distasse cinque chilometri dall’antica residenza dei Martense, la gente delle montagne aveva subito associato l’inspiegabile orrore alla dimora stregata.

    Gli inquirenti erano invece piuttosto scettici, e soltanto per scrupolo avevano perquisito il palazzo, escludendolo poi dalle indagini, visto che l’edificio era palesemente disabitato e abbandonato.

    Alcuni abitanti dei villaggi e della campagna circostante avevano invece perlustrato di loro iniziativa il luogo con cura meticolosa.

    Misero l’abitazione sottosopra, scandagliarono gli stagni e i ruscelli, abbatterono i cespugli e rastrellarono le foreste vicine.

    Ma fu tutto inutile: la morte era giunta e se n’era andata senza traccia, lasciando dietro di sé nient’altro che la distruzione.

    Al secondo giorno di ricerche, la cosa finì sui giornali, e il monte delle Tempeste venne invaso dagli inviati.

    Questi descrissero ogni cosa senza risparmiare particolari, e raccolsero molte interviste per illustrare i retroscena di quell’orrore, così come venivano tramandati dalle vecchie del luogo.

    Da esperto di fatti orrendi e straordinari, fui dapprima scarsamente stimolato da quei resoconti, ma la settimana successiva mi parve di scorgere un’atmosfera inquietante che aleggiava intorno a quei fatti.

    Sicché, il 5 agosto 1921, presi una stanza nell’albergo di Lefferts Corners, il villaggio più vicino al monte delle Tempeste, affollato dai giornalisti e quartier generale degli uomini impegnati nelle ricerche.

    Dopo tre settimane, la presenza dei cronisti cominciò a diradarsi, lasciandomi libero di dare inizio alla mia terribile esplorazione, basata su un’inchiesta e una serie di sopralluoghi che frattanto avevo condotto personalmente.

    Così, in quella notte estiva, mentre i tuoni rombavano distanti, fermai la piccola auto e, insieme a due compagni armati, mi inerpicai a piedi su per le pendici del monte delle Tempeste, risalendo a fatica l’ultimo tratto di terreno irto di tumuli.

    Munito di torcia elettrica, ne proiettai il fascio luminoso sulle grigie muraglie spettrali che cominciavano a intravedersi tra le querce gigantesche.

    In quella livida solitudine notturna, e nella luce incerta, la massiccia e compatta struttura svelava oscure avvisaglie di terrore che la luce diurna non sapeva rivelare.

    Non esitai, perché ero risoluto a sperimentare una mia idea.

    Ero convinto che il tuono inducesse quel demone letale ad uscire da un suo spaventoso nascondiglio, ed ero fermamente intenzionato a vederlo, fosse esso una solida entità diabolica o una fumosa pestilenza.

    Avevo già perlustrato a fondo il rudere, e sapevo come attuare il mio piano.

    La vecchia camera di Jan Martense sarebbe stata la sede della nostra veglia: un’intima percezione mi diceva che l’appartamento di quell’antica vittima, il cui assassinio veniva celebrato ancora dalle leggende locali, era il luogo adatto per noi.

    La camera, che misurava circa sette metri per lato, era invasa come le altre da vecchio ciarpame, residuo della mobilia di un tempo.

    Era al secondo piano, nell’angolo sudorientale del castello, ed aveva un’enorme finestra che affacciava a levante, ed un’altra molto più stretta prospiciente il meridione, entrambe sprovviste di vetri e di scuri.

    Dirimpetto alla finestra grande vi era un gigantesco camino olandese con piastrelle bibliche raffiguranti la parabola del figliuol prodigo.

    Di fronte alla finestra stretta, vi era invece uno spazioso letto incassato nel muro.

    Mentre il fragore dei tuoni, in parte attutito dai fitti alberi, si faceva più intenso, presi ad attuare i particolari del mio piano.

    Innanzitutto fissai al davanzale della finestra più grande tre scale di corda che avevo portato con me.

    Le avevo già provate, e sapevo che raggiungevano una superficie erbosa che faceva al caso nostro.

    Poi, tutti e tre insieme, trascinammo da un’altra stanza l’ampio telaio di un letto a quattro colonne e lo sistemammo lateralmente alla finestra.

    Quindi lo coprimmo di fronde d’abete, sulle quali ci adagiammo estraendo le automatiche.

    Mentre due di noi riposavano, il terzo avrebbe fatto la guardia.

    Da qualunque direzione fosse giunto il demone, ci eravamo assicurati una possibilità di fuga.

    Se fosse venuto dall’interno della casa, avremmo usato le scale di corda alla finestra; se invece fosse giunto dall’esterno, allora avremmo preso la via della porta e i gradini.

    A giudicare dai precedenti, non credevamo che, se le cose si fossero messe al peggio, ci avrebbe inseguito a lungo.

    Il mio turno di guardia iniziò a mezzanotte ma, verso l’una, malgrado l’aria sinistra della casa, le finestre spalancate e l’approssimarsi dei tuoni e dei fulmini, cominciai ad avvertire una curiosa sonnolenza.

    Mi trovavo in mezzo ai miei due compagni, George Bennett rivolto verso la finestra e William Tobey verso il caminetto.

    Bennett si era addormentato, colto evidentemente dal medesimo anomalo torpore che appannava la mia mente, sicché scelsi Tobey per il successivo turno di sorveglianza; ma anche lui reclinava di quando in quando la testa sonnecchiando.

    Durante la mia ora di veglia avevo fissato il camino con un’intensità che giudicai io stesso molto strana.

    I tuoni intanto si intensificavano e, probabilmente, il loro fragore dovette molestare i miei sogni perché, nel breve tempo in cui dormii, ebbi visioni apocalittiche.

    Ad un certo punto, quasi mi svegliai, forse perché, nell’inquietudine, il compagno addormentato rivolto alla finestra mi aveva gettato un braccio sul petto.

    L’urto mi scosse dal sonno profondo in cui ero immerso, ma non mi destai completamente, così da vedere se Tobey stesse di sentinella, ma avvertii una fitta d’ansia.

    Mai, prima d’allora, la presenza del male mi aveva oppresso con tanta chiarezza.

    Poi dovetti nuovamente cadere preda del sonno, giacché la mia mente emerse da un caos fantasmagorico quando la notte si riempì delle grida più raccapriccianti che avessi mai udito, tali da soverchiare in orrore ogni mia precedente esperienza o immaginazione.

    In quelle urla l’essenza più intima e profonda della paura e dell’angoscia umana tendeva disperatamente e follemente a raggiungere le nere porte dell’oblio.

    Riaprii la mente per trovarmi nella follia e con la sensazione di una beffa demoniaca mentre, scivolando sempre più gilungo scenari inconcepibili, un’angoscia tremenda e cristallina lampeggiava fra visioni d’incubo.

    Eravamo al buio fitto ma, dallo spazio vuoto alla mia destra, intuii che Tobey se n’era andato, e Iddio soltanto sapeva dove.

    Sul torace sentivo invece ancora il peso del braccio del dormiente alla mia sinistra.

    Giunse poi la folgore devastante che scosse l’intera montagna, rischiarò i più cupi recessi dell’antico bosco e spaccò in due il patriarca di quegli alberi nodosi.

    Al balenio demoniaco del mostruoso globo di fuoco il mio compagno addormentato si scosse bruscamente, mentre il bagliore che si irradiava dalla finestra rivelò un’ombra apparsa sulla canna fumaria del camino, dal quale non avevo mai distolto lo sguardo.

    Perché io sia vivo, e non sia impazzito, è un prodigio che non so spiegare.

    Visto che l’ombra sul camino non apparteneva a George Bennett, né a qualsivoglia creatura umana, bensì ad una anomalia blasfema emersa dai crateri più profondi degli abissi infernali.

    Un innominabile e deforme abominio che la mente umana non può accettare e la penna non sa descrivere.

    Un istante dopo mi ritrovai da solo nella dimora maledetta, balbettante e scosso dai brividi.

    George Bennett e William Tobey erano scomparsi senza lasciare traccia, neppure di lotta.

    Non se ne seppe mai più nulla.

    2.

    Un viandante nella tempesta Dopo quella orribile esperienza nella casa circondata dai boschi, rimasi per giorni chiuso in camera nell’albergo di Lefferts Corners, prostrato dalla tensione nervosa.

    Non ricordo in che modo riuscii a raggiungere l’auto, a metterla in moto e a far ritorno inosservato al villaggio.

    Di tutto ciò non ho più memoria.

    Mi rimane soltanto una vaga impressione di alberi titanici dai rami minacciosi, di cupi rumori di tuono, e di ombre infernali sui bassi tumuli che punteggiano la regione.

    E, mentre rabbrividivo e meditavo su quell’ombra, mi resi conto di esser giunto a intravvedere uno dei supremi orrori della Terra.

    Una cosa venuta dall’ignoto, una delle minacce senza nome delle quali talvolta udiamo il fioco stridore sui confini più remoti dello spazio; solo la limitatezza della nostra visuale ci conferisce una misericordiosa immunità nei loro confronti.

    Non osavo neppure analizzare o tentare di identificare l’ombra che avevo visto.

    Quella notte, qualcosa si era frapposto tra me e la finestra e, al solo pensiero di quel qualcosa, tremavo ogni volta che non riuscivo a respingere l’impulso di pormi delle domande.

    Se solo avesse ringhiato, o latrato, o riso istericamente, almeno ciò ne avrebbe attenuato l’abissale estraneità.

    E invece era rimasto in totale silenzio.

    Mi aveva poggiato un pesante braccio, o forse una zampa, sul petto… La sua natura era dunque organica, o un tempo doveva esserlo stata… Jan Martense, del quale avevamo profanato la camera, era sepolto nel cimitero vicino alla villa… Dovevo trovare Bennett e Tobey, se pur erano ancora vivi… Perché aveva catturato loro, lasciando me per ultimo? Il sonno mi opprime in modo insostenibile, i sogni sono orrendi… In breve mi resi conto che, se non avessi raccontato la mia storia a qualcuno, sarei impazzito senza rimedio.

    Avevo già deciso di non abbandonare la ricerca della paura in agguato perché, nella mia sconsiderata ignoranza, ritenevo che l’incertezza fosse peggiore della verità, per quanto terribile potesse dimostrarsi.

    Stabilii la condotta migliore.

    Decisi chi mettere a parte delle mie confidenze e in che modo tentar di catturare quella cosa che aveva dissolto nel nulla due uomini e aveva proiettato la sua ombra d’incubo sul camìno.

    A Lefferts Corners avevo fatto conoscenza con diversi giornalisti dimostratisi assai cordiali.

    Un certo numero di essi erano rimasti sul posto per raccogliere gli ultimi echi sollevati dalla tragedia.

    Tra questi, decisi di scegliermi un collaboratore e, pensandoci, decisi per un certo Arthur Munroe: un uomo magro e bruno, sui trentacinque, che per cultura, gusti, intelligenza e carattere, sembrava libero da idee ed esperienze convenzionali.

    Un pomeriggio dei primi di settembre, Arthur Munroe ascoltò il mio racconto.

    Vidi subito che era attento e interessato a quanto gli stavo riferendo; quando ebbi concluso, analizzò la cosa con acume e capacità di giudizio.

    Il suo consiglio fu molto assennato: mi raccomandò di rimandare ogni operazione nella dimora di Martense fino a quando non avessimo raccolto maggiori notizie su quel luogo e la sua storia.

    Su sua iniziativa, rastrellammo la campagna lì intorno in cerca di informazioni sulla famiglia Martense, e scoprimmo così un uomo in possesso di un antichissimo diario dal contenuto illuminante.

    Parlammo anche a lungo con i montanari che la paura del mostro non aveva ancora spinto altrove.

    Stabilimmo quindi di compiere una esplorazione completa e definitiva dei luoghi associati alle diverse tragedie che popolavano le leggende degli squatter, dopodiché avremmo affrontato il compito finale, cioè l’esame della vecchia dimora alla luce delle informazioni acquisite.

    Inzialmente, i risultati non furono significativi, ma confrontandoli per trarne un quadro completo, ci accorgemmo di un fatto: il numero delle morti orribili era di gran lunga maggiore nelle zone relativamente vicine al castello maledetto o ad esso collegate da lingue di foresta intricata.

    è pur vero che vi erano delle eccezioni: difatti, la tragedia che aveva richiamato l’attenzione del mondo si era verificata in uno spazio privo di alberi, distante sia dal maniero che dalla foresta.

    Sulla natura e l’aspetto della paura in agguato non riuscimmo a cavare granché dai miseri abitanti delle capanne, troppo spaventati per essere coerenti.

    Di volta in volta, lo definivano drago e gigante, demone del tuono e pipistrello, avvoltoio e albero che cammina.

    Ci parve di capire comunque che si trattava di un organismo vivente, altamente suscettibile alle scariche elettriche dei temporali; e, benché taluni racconti lo dicessero dotato di ali, la sua avversione per gli spazi aperti rendeva più probabile l’ipotesi di una creatura terrestre.

    L’unico fatto incompatibile con questa congettura era la rapiù dità con la quale il mostro doveva essersi spostato per commettere tutti i misfatti attribuitigli.

    Grazie alle nostre indagini, conoscemmo meglio gli squatter, e li trovammo curiosamente simpatici sotto diversi aspetti: erano in fondo creature semplici che, per l’isolamento e l’avversa ereditarietà, avevano disceso di qualche grado la scala evolutiva.

    Nutrivano un certo timore verso gli estranei ma, a poco a poco, si abituarono a noi e, alla fine, ci furono di grande aiuto quando esplorammo i boschi e demolimmo ogni tramezzo della dimora nella nostra ricerca della paura in agguato.

    Chiedemmo loro di aiutarci a cercare Bennett e Tobey, e si dimostrarono molto dispiaciuti: ci avrebbero dato volentieri una mano, ma erano convinti che le due vittime che cercavamo fossero sparite completamente da questo mondo, così come i membri dispersi della loro comunità.

    Presto ci convincemmo che il numero delle persone scomparse o uccise era in realtà grandissimo, e che persino gli animali selvaggi erano stati sterminati; ci aspettavamo perciò con apprensione altre tragedie simili.

    A metà di ottobre, ci rendemmo conto con sconcerto di non aver compiuto in realtà alcun progresso sostanziale.

    Il perdurare del bel tempo aveva impedito che si verificassero altre aggressioni demoniache, e la scrupolosa quanto vana accuratezza con la quale avevamo condotto le nostre ricerche all’interno della casa e nella campagna circostante, ci stava facendo tornare all’ipotesi che la paura in agguato fosse un’entità immateriale.

    Temevamo che il freddo avrebbe interrotto le nostre esplorazioni giacché tutti convenivano che il demone fosse generalmente inattivo durante l’inverno.

    Per questo la nostra ultima esplorazione diurna fu caratterizzata da un senso d’ansia misto a rassegnazione.

    Mèta della nostra indagine era il villaggio vlsitato dall’orrore, un gruppo di capanne lasciate deserte dagli squatter atterriti.

    Il villaggio fatto segno dal destino non aveva alcun nome, e da lungo tempo sorgeva in una gola priva di alberi ma riparata dalle due alture tra le quali si apriva, chiamate Cone Mountain e Maple Hill.

    Era tuttavia più vicino a quest’ultima: difatti, alcune delle abitazioni più misere non erano altro che tane ricavate sul suo fianco.

    Dal punto di vista geografico, era a circa tre chilometri a nord-ovest della base del monte delle Tempeste e a quasi cinque chilometri dal maniero racchiuso tra le querce.

    Nel tratto che separava quest’ultimo dal villaggio, per buoni tre chilometri si stendeva l’aperta campagna, pianeggiante ad eccezione di balze basse e sinuose come serpenti.

    La vegetazione era costituita da erba e sterpaglie disseminate qua e là.

    Considerando questa topografia, avevamo concluso che il demone poteva essere giunto solo dalla Cone Mountain, dove una boscosa propaggine meridionale correva a poca distanza dal contrafforte occidentale del monte delle Tempeste.

    Il misterioso cedimento del terreno lo attribuimmo poi ad una frana della Maple Hill, sul cui fianco si trovava un alto e solitario albero dal tronco squarciato sul quale si era abbattuta la folgore che aveva richiamato il demone.

    Quando, per la ventesima volta o forse più, io e Arthur Munroe frugammo minuziosamente ogni centimetro del villaggio devastato fummo colti da uno scoramento frammisto a nuove e indistinte paure.

    Ci pareva del tutto innaturale, anche in un momento in cui sembravano all’ordine del giorno cose terrificanti e innaturali, il fatto di trovarci dinanzi a uno scenario così desolatamente privo di indizi, anche dopo avvenimenti di tale catastrofica portata.

    Ci muovevamo sotto un cielo di piombo che si faceva sempre più cupo, animati da quella tragica e cieca premura che nasce dalla necessità di agire combinata al senso dell’inutilità.

    Con scrupolo estremo, rastrellammo tutta la zona: entrammo nuovamente in tutte le baracche, cercammo eventuali cadaveri in ogni possibile rifugio sulle pendici del colle, setacciammo ogni metro di impervio terreno adiacente al pendio in cerca di tane e caverne: tutto invano.

    Eppure, come ho già detto, nuove e indistinte paure incombevano minacciose su di noi, come se giganteschi grifoni dalle ali di pipistrello si affacciassero a spiarci invisibili, dalla cima delle montagne, beffandosi di noi con gli occhi di creature cresciute nell’inferno, e consapevoli degli abissi che ci dividono dall’ignoto.

    Mentre il pomeriggio avanzava, divenne sempre più difficile vedere nell’oscurità e, d’improvviso, udimmo il rombo del tuono annunziare il temporale che si addensava sulla vetta del monte delle Tempeste.

    Naturalmente, trovandoci in quel luogo, il rumore produsse in noi una certa eccitazione, che certo sarebbe stata ben più intensa se fosse già calata la notte.

    Sperammo, senza farci molte illusioni, che il temporale durasse fin dopo il tramonto, e con tale idea sospendemmo l’infruttuosa ricerca sul pendio del colle e ci dirigemmo verso il più vicino villaggio per chiedere agli squatter di aiutarci nelle indagini.

    Per quanto intimoriti, alcuni tra gli uomini più giovani, fidandosi della nostra guida e protezione, non ci rifiutarono aiuto.

    Ci eravamo appena messi in cammino, quando fummo sommersi da una cascata accecante di pioggia torrenziale che ci costrinse a trovare riparo.

    La cupa, quasi notturna oscurità del cielo ci faceva procedere alla cieca ma, grazie ai lampi frequenti e alla nostra ormai perfetta conoscenza del villaggio, raggiungemmo in breve la capanna meno malridotta: un ammasso eterogeneo di tronchi e assi la cui porta ancora esistente e la minuscola finestra affacciavano entrambe sulla Maple Hill.

    Sbarrammo la porta dietro di noi contro la furia del vento e della pioggia, e sistemammo le rozze imposte della finestrella che avevamo localizzato nelle precedenti ricerche.

    Non era allegro starsene lì dentro, seduti su casse traballanti al buio pesto, ma accendemmo le pipe e, di quando in quando, rischiaravamo la baracca con le lampade tascabili.

    A tratti, dalle fessure della parete balenavano i guizzi luminosi dei fulmini, che apparivano particolarmente vividi tanto era cupo quel pomeriggio.

    Rabbrividendo, rammentai una veglia simile sul monte delle Tempeste in una altrettanto spaventosa notte temporalesca.

    Mi tornò in mente la domanda che mi perseguitava da quando avevo incontrato l’orrore, e mi chiesi perché il demone, avvicinatosi a noi tre dalla finestra o dall’interno della casa, avesse assalito i due uomini ai miei lati risparmiando proprio me che ero nel mezzo fino a quando il titanico globo di fuoco lo aveva spaventato inducendolo a fuggire.

    Perché non aveva afferrato le sue vittime secondo una successione logica? Da qualunque direzione fosse giunto, io avrei dovuto essere la sua seconda preda: perché dunque non mi aveva preso? Di qual genere di lunghi tentacoli si serviva? O aveva capito che io ero il capo e mi aveva lasciato per ultimo volendo riservarmi una sorte peggiore di quella toccata ai miei compagni? Mentre riflettevo, un fulmine terrificante, quasi fosse predisposto a sottolineare la mia inquietudine, si abbatté lì vicino, seguito subito dal fragore di una frana del terreno.

    Nel medesimo istante, gli ululati del vento inferociti aumentarono in un crescendo infernale.

    Eravamo certi che l’unico albero rimasto sulla Maple Hill fosse stato colpito nuovamente, e Munroe si alzò dalla cassa sulla quale era seduto e si recò alla finestrella per accertarsi dei danni.

    Non appena ebbe rimosso l’imposta, vento e pioggia irruppero nella casupola urlando tanto da assordarci.

    Non capii quel che Munroe aveva detto, e attesi che si sporgesse al di fuori per scrutare quel pandemonio della natura.

    Il vento a poco a poco cominciò a placarsi, e così pure l’inconsueta oscurità prese ad attenuarsi, annunziandoci che la tempesta stava per finire.

    Avevo sperato che proseguisse fino a sera per favorire la nostra ricerca, ma un furtivo raggio di sole penetrato da un foro del legno alle mie spalle mi disilluse al riguardo.

    Dissi a Munroe che sarebbe stato utile fare un po’ di luce nella baracca anche a costo di affrontare la pioggia, e così disserrai la rozza porta.

    Il terreno di fuori era un acquitrino di fango e pozzanghere, variegato da nuovi cumuli di terra prodotti dalla frana.

    Non scorgevo tuttavia nulla che potesse giustificare l’interesse del mio compagno, ancora silenziosamente proteso fuori dalla finestra.

    Mi accostai a lui e gli toccai una spalla, ma non si mosse.

    Allora, quasi scherzosamente, lo scrollai e lo girai verso di me: ed ecco che mi sentii avvolto dalle spine soffocanti di un orrore velenoso le cui radici affondavano nel buio del passato ancestrale e negli abissi insondati della notte che si cela oltre l’eternità.

    Perché Arthur Munroe era morto.

    E su ciò che restava della sua testa r¢sa e spolpata, non vi era più il volto.

    3.

    Il significato del bagliore rosso L’8 novembre 1921, in una notte spaventosa, munito di una lanterna che proiettava lugubri ombre, giunsi da solo alla tomba di Jan Martense, e cominciai a scavare con la furia di un folle.

    Mi ero organizzato sin dal pomeriggio perché avevo scorto l’aria incupirsi annunziando tempesta e, quando a sera la furia degli elementi era esplosa sulla vegetazione grottescamente ìntricata, ne ero stato immensamente lieto.

    La mia mente, certo, era stata sconvolta dagli eventi successivi al 5 di agosto: l’ombra demoniaca nella casa dei Martense, la tensione frustrata delle ricerche, e il fatto orribile che si era verificato nel villaggio in ottobre durante il temporale.

    Dopo quest’ultimo evento, avevo scavato la tomba per un uomo la cui morte non riuscivo a comprendere.

    E sapevo che neppure le autorità avrebbero saputo spiegarsela: per questo preferii far credere che Arthur Munroe avesse abbandonato la regione.

    La polizia lo cercò a lungo, senza ovviamente alcun risultato.

    Gli squatter, quelli sì, forse avrebbero capito: ma non volli rischiare di spaventarli ulteriormente.

    Quanto a me, mi pareva di essere diventato insensibile, di sicuro in seguito alla violenta emozione che il mio cervello aveva subito nella dimora dei Martense.

    Sicché, adesso, non pensavo ad altro che alla ricerca di un orrore che ormai aveva assunto per me proporzioni smisurate; una ricerca che la sorte di Arthur Munroe mi aveva convinto a proseguire nella massima segretezza e nella più completa solitudine.

    Lo stesso scenario che avevo sott’occhio durante lo scavo sarebbe bastato da solo a spezzare la resistenza nervosa di qualsiasi uomo normale.

    Lugubri alberi oscenamente antichi, enormi e contorti, mi scrutavano minacciosi dall’alto dei loro tronchi grotteschi, circondandomi come le colonne di un infernale tempio druidico.

    Attutivano il boato dei tuoni, smorzavano l’ululato del vento graffiante, e lasciavano filtrare solo scarsi rivoli di pioggia.

    Oltre i tronchi laceri si ergevano sullo sfondo, illuminati da fievoli lampi di luce che a stento passavano fra le fitte chiome, gli umidi blocchi di pietra ricoperti d’edera della dimora deserta; poco più avanti, si scorgeva il giardino olandese abbandonato, i cui sentieri erano contaminati da una vegetazione bianca e lussureggiante, fetida e r¢sa da funghi e muffe, che mai vedeva la luce del sole.

    Intorno a me c’era il camposanto, dove alberi deformi gettavano l’ombra dei loro rami contorti, e le radici frugavano sotto le lapidi sconsacrate succhiando il veleno da ciò che vi era sepolto.

    Di quando in quando, sotto il disgustoso manto di foglie putride che marcivano nel buio della foresta, distinguevo i sinistri contorni dei bassi tumuli di terra che butteravano quella regione sfregiata dalle folgori.

    Era stata la storia a condurmi a quella sepoltura dimenticata.

    La storia era infatti rimasta l’unico punto fermo, dopo che ogni altra cosa era sprofondata nell’orrore.

    Ero convinto ormai che la paura in agguato non fosse un’entità materiale, ma uno spettro dalle zampe di lupo che si manifestava con i fulmini di mezzanotte.

    Le molte tradizioni locali che avevo raccolto assieme ad Arthur Munroe, mi inducevano a credere che lo spettro appartenesse a Jan Martense, morto nel 1762.

    Per quel motivo mi trovavo lì a scavare come un folle nella sua tomba.

    L’imponente residenza era stata costruita nel 1670 da Gerritt Martense, un ricco mercante di New Amsterdam il quale, contrario alle trasformazioni verificatesi sotto il dominio britannico, aveva fatto erigere quella magnifica dimora in cima ad una solitaria vetta boscosa, attratto dalla solitudine e dal maestoso panorama.

    L’unico inconveniente che aveva deluso le sue aspettative era la frequenza con la quale quella vetta isolata era percorsa da terrificanti temporali.

    Nello scegliere il colle ove far costruire la villa, Gerritt Martense aveva erroneamente attribuito quelle furiose intemperanze della natura ad una bizzarria della stagione estiva; ma, col tempo, si era reso conto che era il luogo stesso ad essere particolarmente esposto alle folgori.

    E poiché i boati temporaleschi avevano effetto lacerante sul suo sistema nervoso, pensò bene di attrezzare un vano sotterraneo dove potersi rifugiare durante gli uragani più violenti.

    Dai discendenti di Gerritt Martense si sa ancor meno di lui; tutti furono allevati nell’odio per la civiltà inglese, e si tenevano lontano dai colonizzatori che invece avallavano la nuova politica.

    Condussero un’esistenza estremamente appartata e, a detta della gente, tale isolamento aveva fatto sì che non parlassero né comprendessero bene la lingua dei loro simili.

    All’aspetto si distinguevano per una peculiarità ereditaria: la diseguaglianza cromatica degli occhi, uno azzurro e l’altro castano.

    I contatti sociali si fecero sempre più radi, fino a costringerli a contrarre matrimonio con esponenti della numerosa classe servile che viveva nei paraggi della loro proprietà.

    Molti membri di quella prolifica stirpe, degenerati, si spostarono dall’altra parte della vallata mescolandosi alla popolazione ignorante che avrebbe dato origine ai miserabili squatter.

    Gli altri esponenti della famiglia rimasero invece morbosamente avvinghiati alla dimora avita, facendosi sempre più schivi e taciturni, e sviluppando una sorta di sensibilità nervosa alle frequenti tempeste.

    Di tutto ciò, il mondo esterno ebbe notizia grazie principalmente al giovane Jan Martense, che, spinto da naturale irrequietezza, si arruolò nell’esercito coloniale quando persino sul monte delle Tempeste si seppe del congresso di Albany (3).

    Jan fu il primo dei discendenti di Gerritt a vedere tanto del mondo, e quando nel 1760, dopo sei anni di vita militare, fece ritorno alla sua casa sperduta, fu odiato come un estraneo dal padre, dagli zii e dai fratelli, nonostante gli occhi di diverso colore ne facessero un vero Martense.

    Il giovane non condivideva più le stravaganze e i pregiudizi dei parenti, e i temporali di montagna non esercitavano più su di lui alcun effetto nefasto, come una volta.

    Anzi, quell’ambiente ormai lo deprimeva, e più di una volta confidò per lettera a un amico di Albany il suo desiderio di abbandonare la casa paterna.

    Nella primavera del 1763, Jonathan Gifford, l’amico di Jan residente ad Albany, si preoccupò per un prolungato silenzio del suo corrispondente; tanto più che sapeva delle condizioni e dei conflitti a casa Martense.

    Decise allora di far visita all’amico e, in groppa al suo cavallo, partì alla volta dei monti.

    Nel suo diario annotò che giunse al monte delle Tempeste il 20 settembre, trovando il castello in stato di drammatica decadenza.

    I cupi Martense dai bizzarri occhi, sudici e animaleschi al punto da disgustarlo, gli riferirono, metà a parole e metà a grugniti, che Jan era morto.

    Gli ripeterono più volte che il giovane era stato colpito da un fulmine l’autunno precedente, e aggiunsero che era sepolto nel giardino abbandonato.

    Mostrarono pure al visitatore la tomba, priva di lapide o altro segno distintivo.

    Qualcosa nei modi e nell’aspetto dei Martense destò in Gifford un senso di ripugnanza e di sospetto, per cui, la settimana dopo, tornò armato di pala e piccone per esaminare la fossa.

    Vi trovò ciò che aveva sospettato: un cranio sfondato ferocemente da colpi selvaggi.

    Rientrò ad Albany, e accusò i Martense dell’assassinio del congiunto.

    Non fu rinvenuta alcuna prova legale, ma la storia si diffuse subito nelle campagne, e da allora i Martense vennero evitati da tutti.

    Nessuno volle più avere a che fare con loro, e il remoto maniero fu schivato come un luogo maledetto.

    Riuscirono comunque a sopravvivere grazie ai raccolti delle loro terre, e le luci che si intravedevano dai colli distanti testimoniavano della loro esistenza.

    Di questi occasionali bagliori si ebbe segno fino al 1810, ma alla fine si diradarono considerevolmente.

    Intanto, la casa e il monte avevano dato origine a una lunga serie di leggende diaboliche.

    Il posto fu quindi evitato con determinazione ancora maggiore, come sede delle più cupe e terribili storie che la tradizione potesse offrire alle genti del luogo.

    Nessuno più andò a visitare la casa fino al 1816, quando l’ininterrotta assenza delle sporadiche luci fu notata dagli squatter.

    Una squadra di persone vi andò allora a investigare, e la trovò abbandonata e semidiroccata.

    L’assenza di resti umani nel castello suggerì che i padroni di casa anziché morti fossero invece partiti, cosa che doveva essere accaduta parecchi anni prima; inoltre, le molte rudimentali costruzioni aggiunte all’edificio dimostravano che, prima di emigrare, il clan dei Martense doveva essersi moltiplicato in maniera notevole.

    Il livello culturale, d’altra parte, doveva essere assai degenerato, come dimostravano il mobilio assai malridotto e l’argenteria sparsa un po’ dappertutto, chiaramente da lungo tempo in disuso già prima che i padroni partissero.

    Anche se i temuti Martense se ne erano andati, il terrore che la casa fosse abitata dagli spettri perdurava, accentuato dalle nuove e strane storie sorte tra i montanari.

    L’antica dimora rimase dunque abbandonata, temuta e idealmente legata alla vendetta dello spettro di Jan Martense.

    Ed era ancora lì la notte in cui scavai nella tomba di Jan.

    Ho già definita un’azione folle il mio lungo scavare in quella fossa, e tale era difatti sia per l’obiettivo che per il modo.

    Non tardai a dissotterrare la bara di Jan Martense contenente ormai soltanto polvere e salnitro ma nella mia ansia di esumare lo spettro, continuai a scavare, goffo e irrazionale, sotto al livello sul quale il feretro era poggiato.

    Solo Iddio sa cosa sperassi di trovare: sapevo solo che stavo scavando nella tomba di un uomo il cui fantasma vagava nella notte.

    è impossibile dire quale mostruosa profondità avessi raggiunto quando la pala, e subito dopo i miei piedi, aprirono un varco nel terreno sottostante.

    Il che, date le circostanze, fu una scoperta terribile: l’esistenza di una cavità sotterranea confermava infatti le mie peggiori teorìe.

    La breve caduta che seguì aveva fatto spegnere la lanterna: estrassi allora la lampada tascabile e illuminai la stretta galleria orizzontale che si stendeva indefinitamente diramandosi in entrambe le direzioni.

    La sua ampiezza era appena sufficiente perché un uomo vi si potesse infilare strisciando, e, pur sapendo che nessuna persona di buon senso avrebbe tentato una cosa simile in quel particolare momento, dimenticai pericolo, ragione e ripugnanza, spinto dall’ossessiva frenesia di stanare la paura in agguato.

    Scelsi la direzione che andava verso la casa dei Martense e incautamente mi infilai nello stretto budello.

    Contorcendomi, procedetti rapido e alla cieca, accendendo di tanto in tanto la torcia elettrica che tenevo dritta dinanzi a me.

    Quali parole possono descrivere lo spettacolo di un uomo perduto nelle sterminate e abissali viscere della terra? Quale linguaggio può narrare il suo contorcersi, respirare a fatica, scavare con le unghie per avanzare attraverso recessi di tenebra, immemore, senza la minima idea del tempo, della direzione, del rischio e dello scopo preciso del suo incedere? C’è qualcosa di orribile in quel che ho fatto, eppure è proprio quanto ho fatto.

    E durò tanto a lungo che la mia vita parve dissolversi come un remoto ricordo, e divenni tutt’uno con le talpe e i vermi dei sotterranei.

    Fu solo per caso che, dopo interminabili contorcimenti, accendendo la torcia elettrica, illuminai il cunicolo di argilla raggrumata che, curvandosi, si dirigeva verso l’alto.

    Lo seguii per un lungo tratto con la torcia accesa, la cui luce si faceva sempre più fioca, quando, improvvisamente, il livello del terreno prese a salire rapidamente, e fui costretto a mutare il mio procedere.

    Alzai lo sguardo, e in lontananza vidi con sorpresa due riflessi demoniaci causati dalla torcia prossima ad esaurirsi.

    Due riflessi che diffondevano una luminosità malvagia e inconfondibile, che evocò in me un ricordo confuso e sconvolgente.

    Mi fermai di scatto e rimasi fermo, svuotato anche della presenza di spirito necessaria per farmi indietreggiare.

    Gli occhi si avvicinarono, ma dell’essere a cui essi appartenevano riuscii a distinguere soltanto un artiglio.

    Un artiglio spaventoso! Ad un tratto, lontana davanti a me, giunse l’eco attutita di uno scoppio che riconobbi: era il tuono che si abbatteva sulla montagna, scaricandosi con furia selvaggia.

    Capii allora che dovevo aver risalito il cunicolo per un lungo tratto, avvicinandomi parecchio alla superficie.

    Il tuono rombò ancora, pur attutito nel suo fragore, e gli occhi mi fissarono con vacua malignità.

    Grazie a Dio non compresi ciò che avevo davanti, altrimenti ne sarei morto.

    E fu il tuono a salvarmi, proprio il tuono che aveva evocato la creatura.

    Dopo una raccapricciante attesa, dall’invisibile cielo esterno esplose uno di quei frequenti fulmini montani di cui avevo spesso notato gli effetti, squarci nel terreno rimosso e rocce fuse di svariate dimensioni.

    Con la furia di un titano la folgore lacerò il suolo sovrastante quel pozzo dannato, accecandomi e assordandomi, senza però farmi perdere i sensi.

    Nel caos del terriccio smosso e franante, annaspai in cerca di un appiglio, e continuai a dimenarmi finché la pioggia, battendomi sulla testa, ridestò la mia mente intorpidita.

    Improvvisamente lucido, compresi di essere riemerso in superficie in un punto che conoscevo: una radura sul fianco sudoccidentale della montagna.

    Il continuo balenio dei fulmini rischiarava il terreno dissestato, e scorsi i resti del curioso poggio che si allungava dalla parte alta e boscosa della montagna, ma nulla, in quel caos, mostrava il punto dal quale ero affiorato risalendo dall’infernale catacomba.

    Un caos di pari violenza mi sconvolgeva il cervello e, quando in lontananza il paesaggio fu acceso da un rosso bagliore proveniente da Sud, a stento mi resi conto dell’orrore che avevo vissuto.

    Due giorni dopo, gli squatter mi spiegarono il significato di quel rosso bagliore, ed io provai un terrore ancora più intenso di quello che mi aveva stretto nel profondo della cupa tana alla vista degli occhi luccicanti e dell’artiglio: più intenso, sì, per le agghiaccianti conseguenze che implicava! In un villaggio ad oltre trenta chilometri, un orrore senza nome aveva fatto seguito allo scoppio di fulmine che mi aveva riportato in superficie, e una cosa mostruosa era calata da un albero piombando in una capanna attraverso il tetto sfondato.

    All’interno, l’essere aveva compiuto un atto esecrabile, ma i miseri baraccati, in preda al terrore, erano riusciti a dar fuoco all’abitazione prima che il mostro ne potesse fuggire.

    Proprio mentre compiva il suo atto, a trenta chilometri di distanza la terra era franata sull’essere dotato di occhi rossi e di un artiglio, apparsomi nel cunicolo.

    4.

    L’orrore negli occhi Non può esservi nulla di normale nella mente di un uomo che, pur conoscendo come me gli orrori del monte delle Tempeste, si ostini ugualmente a cercare da solo la paura che vi si cela in agguato.

    La certezza che almeno due di quelle incarnazioni dell’incubo erano state distrutte, costituiva un appiglio per la saluta fisica e mentale in quell’Acheronte popolato di demoni, e proseguii nella mia ricerca con zelo ancora maggiore, anche quando gli eventi e le rivelazioni si fecero ancor più mostruosi.

    Quando, due giorni dopo la mia orrenda avventura nella cripta abitata dall’essere con gli occhi e l’artiglio, appresi che una creatura simile si era manifestata ad una distanza di trenta chilometri nello stesso istante in cui quegli occhi si erano posati su di me, caddi in preda a un delirio di paura.

    Ma era una paura così mescolata al fascino dell’ignoto da dar luogo a una sensazione per me non priva di un certo tenebroso godimento.

    Talvolta, quando si è preda degli spasimi di un incubo, e forze invisibili ci trasportano in volo sui tetti di strane città morte, verso il sogghignante abisso di Nis, è un sollievo e persino un piacere urlare come folli e lanciarsi volontariamente nel gorgo spaventoso del destino onirico, precipitando nel baratro senza fine che ci si spalanca dinanzi.

    E così fu per me con l’incubo ad occhi aperti del monte delle Tempeste.

    La scoperta che i mostri che avevano infestato quella zona erano stati almeno due suscitò in me un’ansia folle di penetrare nel suolo di quella regione maledetta e di dissotterrarne con le mie stesse mani la morte che occhieggiava da ogni centimetro di quel terreno velenoso.

    Non appena mi fu possibile, visitai di nuovo la tomba di Jan Martense, e invano scavai lì dove avevo già scavato prima.

    Una vasta frana aveva cancellato ogni traccia della galleria sotterranea, mentre la pioggia aveva riversato tanto fango nello scavo da impedirmi di accertare a quale profondità fossi giunto qualche giorno prima.

    Affrontai anche un faticoso viaggio fino al distante villaggio dove la creatura seminatrice di morte era stata bruciata viva, e lì fui ripagato soltanto in misura minima della fatica alla quale mi ero sottoposto.

    Tra le ceneri della capanna trovai parecchie ossa, ma nessuna pareva appartenere al mostro.

    Gli squatter riferirono che la creatura aveva fatto una sola vittima, cosa che non ritenni esatta giacché, accanto al cranio integro di un essere umano, vi era un altro frammento osseo che certamente doveva essere appartenuto al teschio d’un uomo.

    Il mostro era stato visto di sfuggita mentre piombava rapido sulla baracca, ma nessuno ne sapeva descrivere l’aspetto: i testimoni dicevano semplicemente che si trattava di un diavolo.

    Esaminai il grosso albero sul quale si era acquattato, ma non trovai alcun segno particolare.

    Cercai allora qualche traccia nella buia foresta, ma non riuscii a sopportare la vista dei tronchi deformi, immensi e delle enormi radici simili a serpenti che si torcevano mostruosamente prima di affondare nel terreno.

    La mia mossa successiva fu un nuovo esame, condotto stavolta con attenzione microscopica, del villaggio abbandonato dove la morte aveva colpito con maggior furia, e dove Arthur Munroe aveva visto qualcosa che non era vissuto abbastanza da poter descrivere.

    Le mie ricerche precedenti erano state meticolose, ma ora disponevo di nuovi dati da verificare, giacché l’orribile catabasi nella tomba di Jan Martense mi aveva convinto del fatto che almeno una delle mostruosità che si aggiravano nella regione era rappresentata da una creatura sotterranea.

    In quella occasione era il 14 di novembre le mie ricerche si accentrarono principalmente sulle pendici di Cone Mountain e Maple Hill, nel tratto che sovrastava lo sciagurato villaggio.

    Studiai in particolare l’area nella quale il terreno si era staccato dalla regione franosa sulla Maple Hill.

    Non trovai nulla di particolare in tutto un pomeriggio di ricerche, e il crepuscolo mi colse mentre ero su quell’ultimo colle, lo sguardo volto al villaggio sottostante e, oltre la vallata, al monte delle Tempeste.

    Dopo un magnifico tramonto, una luna quasi piena si era alzata in cielo stendendo il suo manto argentato sulla pianura, sui monti lontani e sulle bizzarre collinette che sorgevano qua e là.

    Davanti agli occhi avevo un sereno panorama d’Arcadia: ma, sapendo di ciò che vi si celava, fui travolto da un’ondata d’odio.

    Odiai la luna beffarda, l’ipocrita pianura, i monti avvelenati e le onnipresenti, inquietanti gobbe.

    Tutto mi appariva contaminato da un morbo ripugnante e da osceni connubi con abiette potenze occulte.

    Poi, mentre contemplavo assorto il paesaggio lunare, il mio occhio fu attratto da qualcosa di singolare nel carattere e nella disposizione di un particolare elemento topografico della zona.

    Pur essendo privo di cognizioni geologiche, ero stato colpito fin dal primo istante dall’abbondanza di tumuli terrosi e basse collinette che caratterizzavano quella regione.

    Avevo notato la loro fitta presenza attorno al monte delle Tempeste, osservando che erano meno numerosi in pianura, mentre si infoltivano presso la vetta: lì vicino, evidentemente, la glaciazione preistorica aveva trovato una resistenza più debole ai suoi fantastici e bizzarri capricci.

    Ora, al chiarore della luna bassa che gettava lunghe ombre misteriose, mi accorsi della peculiare relazione che le linee e i punti di quel sistema di basse collinette avevano con la cima del monte delle Tempeste.

    Quella cima sembrava costituire un centro dal quale le linee o le file di punti si irradiavano come una ragnatela secondo tracciati indefiniti e irregolari: quasi che la malefica dimora dei Martense avesse proteso dei visibili tentacoli di terrore.

    L’idea di simili tentacoli mi diede un brivido inatteso, e mi soffermai ad analizzare le ragioni per cui credevo che quelle gobbe fossero fenomeni glaciali.

    Ma, quanto più riflettevo, tanto più quella conclusione mi pareva impensabile, ed alla mia mente aperta si affacciavano grottesche ed orribili analogie basate su ciò che vedevo in superficie e la mia esperienza nel sottosuolo.

    Prima ancora di rendermene conto, cominciai a pronunciare frasi sconnesse e deliranti: “Mio Dio! Tumuli di terra su gallerie come quelle delle talpe… Quel dannato monte ne deve essere crivellato… Quante… Quella notte nella vecchia casa… presero Bennett e Tobey per primi… perché ci circondavano dai lati…”.

    Mi misi allora a scavare nel tumulo più vicino.

    Scavai in preda al delirio, freneticamente, scosso dai brividi ma quasi esultando.

    Scavai e, alla fine, esplosi in un urlo altissimo dettato dall’emozione incontrollata, quando mi trovai dinanzi a una stretta galleria, una vera e propria tana, identica a quella attraverso la quale avevo strisciato in quella notte demoniaca.

    Dopodiché, ricordo, mi lanciai in una corsa spaventosa, la vanga ancora in mano, e attraversai i prati rischiarati dalla luna e butterati dai cumuli, le profondità tenebrose della foresta e le pendici dei colli, saltando, urlando, ansimando, diretto alla dimora diabolica dei Martense.

    Lì, rammento di aver scavato follemente nella cantina invasa dai rovi, per trovare il nucleo, il cuore, di quel malefico intrico di tumuli.

    E rammento il mio riso sfrenato quando, alla fine, scoprii la via d’accesso: un buco alla base del vecchio camino, dove le fitte sterpaglie proiettavano ombre grottesche alla luce dell’unica candela che per caso avevo con me.

    Ignoravo cos’altro si nascondesse in quell’alveare d’inferno, attendendovi acquattata il richiamo del tuono.

    Due di quelle mostruosità erano state uccise, e forse tutto era finito.

    Ma restava in me l’ansia bruciante di raggiungere il cuore segreto di quell’orrore, che ancor più di prima giudicavo definito, materiale e organico.

    Mi chiesi titubante se fosse il caso di esplorare subito il passaggio, da solo, oppure se fosse meglio radunare una squadra di squatter per aiutarmi nella perlustrazione.

    Mentre riflettevo, un’improvvisa raffica di vento dall’esterno spense la candela e piombai nell’oscurità più assoluta.

    La luna non risplendeva più dai fori e dalle fessure sopra di me e, con un profondo senso di allarme, udii il sinistro e fatale rombo del tuono che si avvicinava.

    Un turbine di idee spaventose mi sconvolse il cervello, e arretrai vacillando verso l’angolo più lontano della cantina, senza distogliere lo sguardo dall’orrida breccia alla base della canna fumaria.

    Quando il bagliore dei primi lampi cominciò a filtrare attraverso le chiome degli alberi e le crepe del soffitto, m’apparvero i mattoni sgretolati e le erbacce velenose che infestavano il sotterraneo.

    Ero consumato da un misto di terrore e di curiosità.

    Quale entità avrebbe evocato il temporale? E c’era poi ancora qualcosa da evocare? Guidato dai lampi, mi acquattai dietro un fitto groviglio di sterpi, dove potevo vedere l’apertura senza essere visto.

    Se il Cielo è misericordioso, un giorno vorrà cancellare dalla mia memoria ciò che vidi, e mi lascerà vivere in pace gli ultimi anni che ancora mi restano.

    Oggi il sonno notturno mi è negato e, quando tuona, sono costretto a stordirmi con i narcotici.

    L’orrore giunse improvviso e inatteso.

    Un tramestio diabolico, simile a un’orda di topi enormi, uscì fuori da baratri remoti e incancellabili.

    Vi fu poi un ansare infernale, un grugnire di bruti, e dalla breccia sotto il focolare scaturì un’ondata di esseri abominevoli, un disgustoso fiume notturno di vita putrescente, un lurido flutto di materia corrotta, generata dalla tenebra, più orrenda dei più oscuri incubi della follia e della perversione.

    Ribollente, fremente, gonfia e gorgogliante come bava di rettile, la fiumana si dilatò fino a emergere dalla breccia che si schiudeva, spargendosi nel sotterraneo, come un contagio, e rifluì dalla cantina verso ogni punto d’uscita.

    Si disperse poi nella notte, puntando verso la foresta maledetta immersa nelle tenebre, a seminare paura, follia e morte! Sa Iddio quanti fossero… migliaia.

    Vederli correre al chiarore intermittente delle folgori era raccapricciante.

    Quando si ridussero di numero sì da poter essere distinti come singoli organismi, mi resi conto che erano nani deformi e pelosi come scimmie o diavoli, caricature mostruose dei primati.

    Il loro silenzio era spaventoso, e a stento udii uno strido quando uno degli ultimi si volse indietro e, con l’abilità di chi è da lungo avvezzo a simili cose, saltò addosso a un compagno più debole e lo sbranò per divorarlo.

    Gli altri si gettarono sugli avanzi della carcassa, ingozzandone i resti con furiosa avidità.

    Allora, pur intontito dall’orrore e il disgusto, la mia morbosa curiosità ebbe la meglio: non appena l’ultima di quelle mostruosità fu uscita da quel mondo sommerso di incubi, estrassi l’automatica e le sparai, coperto dal rombo del tuono.

    Ombre urlanti, percorse da una rossa follia vischiosa, si davano la caccia lungo infiniti corridoi insanguinati sotto un cielo rosso di saette… Spettri senza forma e mutazioni caleidoscopiche di un’unica, demoniaca, scena fissa della memoria… Foreste di querce mostruose e rigonfie, con tortuose radici serpentiformi che suggevano umori velenosi da una terra corrotta, infestata da milioni di diavoli cannibali… lunghi tentacoli irraggiati dai nuclei sotterranei della perversione… folgori di follia sulle mura butterate d’edera maligna, portici demoniaci soffocati da funghi velenosi… Ringrazio il cielo per l’istinto che mi condusse, semincosciente, verso luoghi abitati da uomini, verso il pacifico villaggio che dormiva sotto le stelle silenti del cielo rasserenato.

    Nel giro di una settimana mi ero ripreso abbastanza da mandare qualcuno ad Albany per radunare una squadra di uomini.

    Un carico di dinamite fece saltare la casa dei Martense e l’intera vetta del monte delle Tempeste.

    Vennero livellati e sigillati tutti i tumuli d’ingresso alle tane, e tagliati gli alberi più rigonfi, la cui semplice esistenza costituiva di per sé un insulto alla ragione.

    Dopo che tutto ciò fu compiuto, riuscii a trovare un po’ di sonno: ma il vero riposo, quello non verrà mai fin quando la mia mente serberà il ricordo dell’innominabile segreto della paura in agguato.

    E questo pensiero mi tormenterà sempre, perché chi mai potrà dire che lo sterminio sia stato completo, e che in qualche parte del mondo non esista un fenomeno analogo? Chi, sapendo ciò che so io, potrà pensare alle caverne sconosciute della Terra senza provare un brivido di terrore al pensiero delle abominazioni che potrebbero vomitare? Non riesco a vedere un pozzo o un ingresso della metropolitana senza tremare… Perché i medici non mi danno qualcosa che mi faccia dormire, che riesca veramente a sedare il tumulto del mio cervello, quando tuona? Ciò che vidi al bagliore della torcia dopo aver sparato all’innominabile cosa isolata dalle altre, fu così semplice che mi occorse quasi un intero minuto prima di capire e sprofondare nel delirio.

    La creatura era disgustosa; un lercio essere biancastro simile a un gorilla, con la pelliccia macchiata e gialle zanne affilate.

    Era l’ultimo prodotto della degenerazione nei mammiferi, il terrificante risultato dell’isolamento, della riproduzione incestuosa e di un regime alimentare da cannibali, perseguito sopra e sotto terra.

    Era l’incarnazione del caos e della paura che si cela in agguato dietro la vita.

    Nell’attimo in cui stava morendo, la creatura aveva posato gli occhi su di me, e quegli occhi possedevano la medesima bizzarra peculiarità che caratterizzava gli altri due occhi che mi avevano fissato nel sottosuolo, risvegliando in me vaghi e nebulosi ricordi.

    Un occhio era azzurro, l’altro castano.

    Erano gli occhi disuguali dei Martense, secondo le antiche leggende.

    E, travolto da un’ondata suprema di muto orrore, compresi che cosa era stato della stirpe scomparsa, la terribile dinastia dei Martense perseguitata dai tuoni.





    cripta

    Edited by barionu - 29/4/2013, 14:12
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