Necronomicon

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    Il caso di Charles Dexter Ward , scritto nel 1927/8


    Nella formula per evocare Yog Sothoth





    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!

    ___________________________________________


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO


    ________________________
    ________________________



    ' NGAH'NG AI'Y ZHRO

    ________________________


    dove ZHRO

    è ZIKHRO' forma costrutta di Zikharon Shelò : vuol dire

    sua memoria.

    Ed è presente in una espressione aramaica precisa

    Jamàh sh(e)mò wezikrò :

    Sia cancellato il suo nome e la sua memoria.

    A chi stava alludendo Lovecraft ?



    Tutti i nomi di Gesù


    Yehoshùa

    יְהוֹשֻׁעַ

    Yeshùa

    יֵשׁוּעַ

    Yeshù

    יֵשׁוּ


    Che sarebbe in realtà l' acronimo di


    ימח שמו וזיכרו


    Tento una possibile vocalizzazione

    Yamàh Shemò Wezikhrò


    יַמָח שֵׁמוֹ וְזִיכְרוֹ


    Oppure

    Yamàh Shemò Wezikkarò


    יַמָח שֵׁמוֹ וֹזִיכָּרוֹ



    Cancellate il suo nome e la sua memoria

    E' la forma costrutta da :

    Yamah shem shellò wezikkaròn shellò


    יַמָח שֵׁמ שֶׁלּוֹ וְזִיכָּוֹך שֶׁלּוֹ

    Ovvero :

    שֵׁמ shem : nome


    וְ : we ( la congiunzione )


    זִיכָּרוֹך zikkaròn : memoria

    שֶׁלּוֹ shellò : il suo ( maschile )




    יְהוֹשֻׁעַ Yehoshùa nel Tanakh


    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%A2%D6%B7&s=ft




    יֵשׁוּעַ Yeshùa nel Tanakh


    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%A2%D6%B7&s=ft




    יֵשׁוּ Yeshu nel Tanakh : Non presente !

    http://search.freefind.com/find.html?id=64...7%95%D6%BC&s=ft



    proseguendo


    NGAH'NG AI'Y ZHRO


    AIY'

    VIENE DA

    הָיָה

    HAYAH che è la forma del passato 3a persona machile del verbo essere : il verbo LIHIOT

    לִהְיוֹת


    EGLI FU

    QUINDI AI'Y ZHRO

    STA PER HAYAH ZIKKARON :


    FU MEMORIA




    הָיָה זִיכָּרֹן


    ma la o finale rende la fra ancora più precisa Shellò zikkaron : la sua memoria

    שֶׁלּוֹ זִיכָּרוֹן



    diventa zikkarò nella foma costrutta


    זִיכָּרוֹ





    qindi : hayah zikkarò


    הָיָה זִיכָּרוֹ

    fu sua memoria .


    in Aramaico :zikrò



    זיכרו


    Il verbo essere in Ebraico esiste, ma il più delle volte viene sottinteso .

    L' analisi che sto portando avanti si basa sulle radici delle parole .


    Le tracce stanno comparendo.




    zio ot :B):


     
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    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    'NGAH'NG


    l' APOSTROFO potrebbe valere come omissione fonetica , in questo caso opto per una gutturale ,

    e trovo subito una corrispondenza con la ain

    ע



    quindi

    ain, nun , ghimel ,he ----- ain , nun , ghimel


    ענגה ענג

    la cosa interessante è la presenza di AH , ovvero del suffisso femminile .

    mentre con un ' altra vocale , la O ,e la U che in Ebraico ANTICO , per la parola che ipotizzo, non si scrivono

    salta fuori una definizione precisa : anog , anugah,

    che significa delizia, soave .

    vocalizzato :


    ANOG - maschile

    עָנֺג

    ANUGAH -femminile

    עֲנֻגָה




    quindi riassumo :



    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO


    יָג סוֹטוֹת YAG SOTOT

    עֲנֻגָה ANUGAH

    עָנֺג

    ANOG

    הָיָה HAYAH

    זִיכָּרוֹ ZIKKARO'





    YAG SOTOT ANUGAH ANOG HAYAH ZIKKARO'


    tradicesima depravazionione delizia fu sua memoria .


    Lovecraft sta citando un testo preciso .





    zio ot hypocrite1

    Edited by barionu - 23/8/2012, 19:46
     
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    E' un' indagine lunga e molto complessa . Anche se passa del tempo non preoccupatevi ,

    ci sto sempre lavorando .






    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""



    Infatti , nel caso di Charles Dexter Ward


    www.scribd.com/doc/9634962/15/Storia-del-Necronomicon




    Lovecratf cita il METATARON


    PER ADONAI ELOIM, ADONAI JEHOVA, ADONAI SABAOTH, METRATON.


    Per Adonai Eloim, Adonai Jehova,Adonai Sabaoth, Metraton On Agla Mathon,

    verbum pythonicum, mysterium salamandrae,conventus sylvorum, antra gnomorum,

    daemonia Coeli Dio, Almonsin, Gibor, Jehosua,Evam, Zariatnatmik, veni, veni, veni.




    מְטַטַרוֹן


    http://it.wikipedia.org/wiki/Metatron



    Assente nel Tanakh.

    www.mechon-mamre.org/f/ft/ft0.htm



    uno studio dal net

    www.carmillaonline.com/archives/2007/05/002254print.html


    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""



    In molti si meravigliano dell' errore di Lovecraft . Metraton invece di Metataron-Metatron.

    Le solite accuse di dilettantismo fatte da pseudo accademici che in realtà sono ignoranti

    nel senso letterale del termine ...

    e che non capiscono un c ....


    Per un Qabbalista il Metatron ha lo stesso valore del tetragramma biblico

    http://it.wikipedia.org/wiki/Tetragramma_biblico

    ovvero, una volta scritto NON SI PUO' PIU' CANCELLARE .

    Vedi

    http://it.wikipedia.org/wiki/Ghenizah

    http://it.wikipedia.org/wiki/Nomi_di_Dio_nella_Bibbia


    Infatti , quando ho consultato i miei Ravym ( Maestri ) sul Metatron ,

    quando lo scrivevano sulla lavagna , evitavano accuratamente di scriverlo completo .

    E così il Qabbalista Lovecraft , ha trovato un modo ingegnoso di tramandare il messaggio .




    Seguitemi con mooooooolta pazienza,

    sono sicuro di essere sulla pista giusta.




    zio ot :B):


    SUL METATRON


    NOTE PROPOSTE DAL NICK ELIZABETH ROSSI A CONSULENZA EBRAICA .

    http://consulenzaebraica.forumfree.it/?t=64597199&st=90


    " I Dieci Comandamenti non sono stati dati a Israele nella semplice forma scritta. E' l'inviato che li diede loro… egli è l'inviato della redenzione, ed è lui di cui è scritto 'e l'inviato di Dio partì' Questo inviato è Dio, ed è Lui che annuncia i comandamenti a Israele, come è scritto: "e Dio disse tutte queste cose." (Rabbi Meir Bei Gabai, sefer Avodat Kodesh)

    'E l'inviato di Dio partì' questo messaggero è nella casa del giudizio del Santissimo, benedetto sia il suo nome… questo messaggero è la Shekhinah ed è chiamato ‘l'inviato principe del mondo’ perché è lui che guida il mondo. (Rabbi Menahem di Rekanati, "BiShlach" porzione, Es 14,19)

    Ecco io manderò un mio messaggero, a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo Tempio, il messaggero dell'alleanza, che voi sospirate… (Ml 3,1)

    Il Signore, Egli è il Messia-Re, e Egli è il messaggero dell'Alleanza. (Rabbi David Kimchi su Ml 3,1)

    Il pilastro di mezzo è 'Metatron.' (Zohar, vol. 3, p. 227)

    Il nome grande ed esaltato parla a Mosè e gli dice di salire a YHWH, Egli è Metatron, chiamato alle volte con il nome di YHWH. (Rabbi Menahem di Rekanati, p. 145)

    Chi è la strada per l'albero della vita? E' Metatron… Metatron è chiamato "il messaggero di Dio"… ogni petizione e implorazione presentata al Re deve passare per Metatron… Metatron è l'emissario responsabile che tutto ciò che viene mandato dal cielo a questo mondo, o da questo mondo al cielo… (Tamtsit haZohar, vol. 2, Es., col. 51)

    Il rivestimento di El Shaddai è Metatron. (Zohar, vol. 3, p. 231)

    Esiste un uomo che è un messaggero e Metatron. Egli è un uomo a immagine del Santo, benedetto sia il suo nome. E Egli emana da Lui, poiché Egli è YHWH, e non possiamo dire che Egli sia creato, formato, o fatto, ma che Egli è emanato da Dio. (Tikunei haZohar, cap. 67, p. 130)

    Tu sei il buon pastore; di te si è detto, 'Adorate il Figlio.' Tu sei grande quaggiù, il maestro d'Israele, il Signore degli angeli servitori, il figlio dell'Altissimo, il Figlio del Santo, benedetto sia il suo nome, e la sua Shekhinah." (Zohar, parte III, p. 307, edizione di Amsterdam)

    ...poiché Egli è il pilastro mediano nel Senza Fine, ed Egli è il Figlio di Dio. (Zohar, Genesi, p. 16)

    Dio disse: "Pastore fedele! Tu sei davvero mio Figlio, la Shekhinah. Grandi dignitari e angeli, adorate il Figlio. In piedi, tutti, adorateLo e accoglieteLo come Re e come Signore!" (Zohar, vol. 3, p. 281)

    Susciterò a Davide un germoglio giusto che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato, e Israele starà sicuro nella sua dimora; Questo sarà il nome con cui lo chiameranno: Signore nostra Giustizia. (YHWH Tzidkeinu) (Ger 23,6; anche Ger 33,16)

    E tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele, le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. (Mic 5,1)

    Si dirà nell'era messianica che le sue origini sono dall'antichità, dai giorni remoti;' 'da Betlemme' significa che che egli sarà dalla casa di Davide, perchè passa molto tempo da Davide al Messia-Re; e egli è El , per questo ha origini 'dall'antichità da giorni remoti.' (Qimhi su Mic 5:2)

    Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno Me come Colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, LO piangeranno come si piange il primogenito. (Zc. 12,10)

    Il Talmud ha una sezione in cui è detto che Elisha ben Abuyah, anche conosciuto come Aher ("altro" com'era detto), entrò nel Paradiso e vide il Metatron seduto (un'azione che nel Paradiso è permessa solo al Signore). Elishah ben Abuyah allora guardò al Metatron e disse ereticamente "ci sono dunque due poteri in cielo!". I Rabbini spiegarono che Metatron era autorizzato a sedere per il suo ruolo di Scriba Celeste, scriveva i fatti di Israele (Talmud Babilonese, Hagiga 15a)

    Metatron è a volte detto "il piccolo YHWH", che è il piccolo Tetragrammaton: secondo una versione Talmudica citata dal dotto caraita Qirqisani. La parola 'Metatron' è numericamente equivalente a Shaddai nella Ghematriah; è anche detto avere "il Nome del suo Padrone". Qirqisani potrebbe aver rappresentato in modo erroneo il Talmud per poter imbarazzare i rabbini suoi avversari con un evidente dualismo. D'altro canto, i testi extra-talmudici mistici parlano di "piccolo YHWH", espressione apparentemente derivata da Esodo 23,21, che menziona un angelo di cui Dio dice: "il mio nome è in lui".
    Il Talmud Babilonese menziona Metatron in due altri luoghi: Sanhedrin 38b e Avodah Zarah 3b. Yevamot 16b descrive, nel periodo amorreo, i doveri del 'principe del mondo' trasferiti da Michele a Metatron
    L'esegesi rabbinica afferma che Mosè chiese che il Signore stesso potesse accompagnare il popolo d'Israele proprio nel momento in cui si presentò la possibilità che ciò avvenisse anche con l'assistenza di Metatron

    fonti : http://it.wikipedia.org/wiki/Metatronhttp:...messiah?start=3
     
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  4. Dreyeam
     
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    Scusate se mi intrufolo, ma sono anch'io un'appassionato lettore di Lovecraft e proprio ora sto leggendo il terzo volume della Mondadori della raccolta di tutte le sue opere (Secondo me la migliore collana per scoprire il genio di Lovecraft)...

    Come già detto il Necronomicon è sicuramente un invenzione di Lovecraft, tutti i libri in giro che fingono di esserlo sono ovviamente falsi.
    Ma questo dimostra solo quanto era grande il genio di Lovecraft, capace di creare mondi e strorie al di la della normale immaginazione, molti figli degli incubi/sogni avuti sin da bambino...

    Rilancio: Dagon, Oltre il muro del sonno, La dichiarazione di Randolph Carter, Il richiamo di Cthulhu, Alla ricerca del misterioso Kadath, L'orrore di Dunwich...

    E barionu, complimenti per il lavoro che stai facendo...

    Edited by Dreyeam - 16/2/2013, 14:52
     
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    E barionu, complimenti per il lavoro che stai facendo...

    Grazie carissimo ! :B):

    Sto proseguendo nelle decriptazioni ... ma è una cosa che faccio correllata a molte altre indagini ,

    per cui sono molto lento .

    Ma ho una certezza che vi voglio palesare , in realtà il libro esiste ,

    e si tratta di un manuale di Alchimia , dove i nomi delle " Entità " sono maschere

    per i nomi di elementi chimici .

    zio ot
     
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  6. slippy
     
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    Proprio in questi giorni sto leggendo i racconti del periodo 1923-1926. :)
     
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    Pr darvi un' idea delle indagini correlate :

    http://originidellereligioni.forumfree.it/?t=62782268


    zio ot :B):
     
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    CITAZIONE (slippy @ 28/3/2013, 19:21) 
    Proprio in questi giorni sto leggendo i racconti del periodo 1923-1926. :)

    Ti segnalo " Sotto le Piramidi ".( scritto per H. Houdini )

    Un piccolo capolavoro che spesso rimane in disparte tra i gioielli di Lovecraft .





    zio ot :B):
     
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    A breve, sono elettrizzato .... , ho decriptato tutto il messaggio , : sto scegliendo tra le variabili .

    Ad ogni modo , scelta e postata la più probabile, poi posterò anche le altre .

    Ma l' indagine che sto conducendo a Bologna è in assoluto la più importante .

    Una società segreta con una storia molto antica , con notizie recuperate da scritti dello studioso ( e occultista )

    Giulio Camillo Delminio .

    Sapete che io mi muovo solo su documenti e scritti originali o archetitpi , non altro.

    La cosa incredibile è che anni fa Sebastiano Fusco creò un magnifico divertissement letterario con primo attore

    proprio il Delminio .



    Chiedemmo poi a un nostro bravo autore di narrativa fantastica, Gustavo Gasparini, di raccontare come avesse anche lui scoperto una copia del Necronomicon a Venezia, e i casi derivatigliene, nonché a Giuseppe Lippi, allora stimato saggista lovecraftiano e oggi curatore di Urania (nonché curatore di tutta la narrativa di HPL per gli Oscar Mondadori), di raccontare la storia di una perduta traduzione italiana dell'infame testo a opera di Camillo Delminio, l'esoterista bruniano inventore del "Teatro della Memoria" come supporto per la mnemotecnica.








    Non credo alle coicidenze .


    zio ot :B):

    Edited by barionu - 13/10/2022, 10:09
     
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    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO


    Analizzo ora questa frase


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    Per criptare Lovecraft utilizza una forma molto semplice : l' anagramma con zeppe e scarti


    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""




    EE'H : lo identifico nell' imperativo del verbo essero

    SII ( TU DEVI ESSERE )

    הֱיֵה HEYEH

    In Ebraico, ricordo, il verbo essere esiste, ma è quasi sempre sottinteso



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    GEB'L : lo identifico con

    GEVUL : limite , CONFINE


    גְּבוּל



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    HROD AI'F : notare le due sillabe separate , indice di una mancaza , il segno ' ,

    che potrebbe indicare una forma di elisione


    H è chiaramente un articolo

    ha : il. la

    הַ



    ROD AI'F' : lo identifico in RODEF : avido, avidità

    רוֹדֵף

    che con il pronome tue

    delle tue avidità ( rivolto al femminile )

    è RODEF SHELLAKH


    רוֹדֵף שֶׁלָּך


    diventa HARODEFAIKH nella forma costrutta ( semikhut )



    הַרוֹדֵפַיׅך


    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    OGT


    GT : GAT : TORCHIO

    גַּת

    : IL SUO TORCHIO

    SAREBBE GAT SHELLO'


    גַּת שֶׁלּוֹ


    che nella forma costrutta diventa GATTO'

    גַּתּוֹ

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Riepilogo :


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    IN EBRAICO

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה



    TRASLITTERAZIONE DELLA TRADUZIONE

    gattò harodefaikh gevul heyeh

    TRADUZIONE

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità



    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""
    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Riepilogo completo


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    Decriptazione in ebraico :

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה

    יָג סוֹטוֹת עֲנֻגָה עָנֺג הָיָה זִיכָּרוֹ


    traslitterazione


    gattò harodefàikh gevùl heyèh

    yag sotòt anugàh anòg hayàh zikkarò



    traduzione

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità

    tredicesima depravazionione delizia fu sua memoria .



    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""


    Alcune considerazione e note :

    la corrispondeza con il testo , è , a mio avviso , altamente probabile .

    Ho provato a pronunciare a voce alta la formula

    e l' effetto è impressionante .


    Infatti , per rispetto al popolo della Torah che mi ospita , e per

    ragioni che gli studiosi della Qabbalah possono capire ,

    non ho scritto la formula nella successione di parole

    che ritengo Archetipa .




    La HET sia una barriera invalicabile



    ח





    דוד אות
     
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    Alcuni tocchi di lima ....


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO



    Decriptazione in ebraico :

    גַּתּוֹ הַרוֹדֵפַיׅך גְּבוּל הֱיֵה

    יָג סוֹטוֹת עֲנֻגָה עָנֺג הָיָה זִיכָּרוֹ


    traslitterazione


    gattò harodefàikh gevùl heyèh

    yag sotòt anugàh anòg hayàh zikkarò



    traduzione

    Sii il suo torchio confine delle tue avidità

    tredicesima depravazione delizia fu sua memoria .



    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    in RODEF : avido, avidità

    רוֹדֵף

    in pratica avidità è più propriamente taanah

    תַּאֲוָה


    mentre Yag sotot è un plurale : 13 depravazioni

    יָג סוֹטוֹת


    per cui :


    sii il suo torchio , confine delle tue avide

    13 depravazioni delizia fu sua memoria


    """""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""

    Chiaramente non dobbiamo aspettarci una grammatica perfetta in una formula evocativa poetica ,

    e il senso compiuto apparirà dopo che posto la decriptazione della 1 parte ( ci sto lavorando ) ....



    zio ot :B):
     
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    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA
     
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    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA



    UAAH !


    è il perno dei due Draghi .

    lo identifico nell' imperativo , tziwwuy , del verbo vivere , licheot ,, in bynian qal .

    VIVETE ! (C)HAYU !


    חֲיוּ


    ho provato anche con i binyanym che prevedono la u , come hufal , pual : ma non combina.

    LA TESTA DEL DRAGO HA LE STESSE LETTERE DELLA CODA DEL DRAGO







    zio ot :B):
     
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    Uno dei capolavori di Lovecraft .


    LA PAURA IN AGGUATO














    L’ombra sul camino L’aria era gonfia di tuoni la sera in cui mi recai alla rocca abbandonata in cima al monte delle Tempeste, in cerca della paura in agguato.

    Non ero solo, perché in quei tempi la mia folle temerarietà non si mesceva ancora a quell’ansia per il grottesco e il terribile che ha trasformato la mia esistenza in una continua ricerca degli orrori più inconsueti, nella fantasia come nella realtà.

    Avevo con me due fidati e robusti compagni che avevo fatto venire quando era giunto il momento opportuno: uomini che da tempo mi affiancavano nelle mie esplorazioni più rischiose, dal fisico adatto a quel genere di imprese.

    Ci eravamo allontanati nascostamente dal villaggio, evitando di attirare l’attenzione dei giornalisti che ancora si aggiravano nella zona dopo le vicende terrificanti del mese prima: l’incubo della morte strisciante.

    Pensai che forse mi sarebbero stati utili in seguito, ma in quel momento non li volevo attorno.

    Avesse voluto Iddio che qualcuno di loro mi avesse accompagnato nella ricerca! Almeno, non avrei dovuto sostenere da solo, e per tanto tempo, il peso della verità.

    Una verità che ho dovuto tenere in me per timore che il mondo mi avrebbe giudicato folle se l’avessi rivelata, o che sarebbe a sua volta sprofondato nella follia per le infernali implicazioni della mia scoperta.

    E adesso che ho infine deciso di parlare per evitare che i corsi e ricorsi continui del pensiero facciano di me un maniaco, mi pento di aver tanto atteso.

    Perché io, e io soltanto, so quale sorta di terrore si celi in agguato su quel monte spettrale e desolato.

    A bordo di una piccola automobile, traversammo chilometri di colli e foreste primordiali, fino a raggiungere il limite del bosco.

    Immersa nel buio della sera e spoglia delle frotte di curiosi abituali, la campagna d’attorno appariva più sinistra del solito, tanto che fummo più volte tentati di accendere i fari all’acetilene, pur sapendo che avremmo potuto attirare l’attenzione di qualcuno.

    Tramontato il sole, il paesaggio appariva desolato e inquietante, e sono convinto che la sua livida apparenza mi avrebbe ugualmente turbato anche se non avessi conosciuto il terrore che vi si annidava.

    Non si vedeva alcun animale selvatico: sono creature sagge, e sanno bene quando la morte è vicina, spiando con occhi torvi.

    Gli alberi secolari, spaccati dai fulmini, apparivano mostruosamente enormi e contorti, e il resto della vegetazione era fitta e avvinghiata su se stessa in modo innaturale.

    Tutto intorno, crepacci e tumuli nel terreno lacerato dalle folgori e invaso dalle erbacce, disegnavano nell’ombra sembianze di serpenti e teschi umani ingranditi a proporzioni gigantesche.

    Sul monte delle Tempeste, la paura era in agguato da più di un secolo.

    Era un fatto che avevo appreso dai giornali, dopo la catastrofe che per la prima volta aveva dato notorietà a quella regione.

    L’epicentro dell’orrore era un picco remoto e solitario in una zona dei Catskill (2), dove la civiltà olandese, penetratavi in modo superficiale e transitorio, s’era lasciata alle spalle nient’altro che poche masserie diroccate e una popolazione miserabile al limite della degradazione, i cosiddetti squatter, incrostati in squallidi villaggi di casupole sui dirupi isolati.

    La gente normale si guardava bene dall’avvicinarsi alla località, almeno prima che vi fosse istituita la polizia di Stato.

    Anche adesso, tuttavia, i poliziotti a cavallo la perlustravano soltanto sporadicamente.

    Chi invece è di casa nei villaggi disseminati su quei monti, è la paura, che costituisce uno dei principali argomenti di conversazione di quella povera gente ignorante, nelle occasioni in cui qualcuno di essi lascia le vallate per vendere qualche cesto intrecciato a mano in cambio di quei pochi generi di prima necessità che non potevano procurarsi con la caccia o l’allevamento del bestiame.

    Il luogo geometrico del terrore era la residenza abbandonata dei Martense, fuggita da tutti, che dominava dall’alto le pendici che, gradatamente, portavano ad una cresta sulla quale era situata un’altura, la cui tendenza ad essere flagellata dai temporali le aveva fatto guadagnare il nome di monte delle Tempeste.

    Da più di cent’anni, l’antica dimora di pietra chiusa nei boschi era al centro di racconti vaghi e spaventosi, tessuti attorno a un pericolo silenzioso che in estate strisciava fuori dal suo nascondiglio, dilagando all’intorno.

    Con ottusa insistenza gli abitanti dei miseri villaggi raccontavano di un demone che, dopo il tramonto, aggrediva i viandanti solitari portandoli via con sé o abbandonandoli dilaniati sul terreno.

    Talvolta i montanari accennavano anche a tracce di sangue che conducevano verso il maniero abbandonato.

    Secondo alcuni, erano i tuoni a richiamare la paura in agguato inducendola ad uscire dalla sua tana; altri aggiungevano che il tuono era la sua voce.

    Ma la gente che viveva al di fuori di quelle fitte foreste non aveva mai dato credito a quelle voci diverse e contraddittorie, né alle incoerenti e stravaganti descrizioni del demone appena intravisto.

    Eppure, nella zona, non vi era fattore o abitante dei villaggi che dubitasse del fatto che la dimora dei Martense fosse infestata da una entità demoniaca.

    La storia locale non dava adito a dubbi, anche se i curiosi che avevano visitato il castello spinti dal racconto particolarmente colorito di qualche squatter, non avevano mai trovato alcuna traccia della presenza spettrale.

    Le donne più anziane raccontavano di strane leggende relative al demone dei Martense; leggende che riguardavano la stirpe stessa dei Martense, la peculiare disuguaglianza cromatica degli occhi che si tramandava ereditariamente da un membro all’altro della famiglia, l’anomala longevità, e il delitto all’origine della maledizione sul loro nome.

    Il terrore che mi aveva portato sul luogo sembrava l’inattesa e portentosa conferma delle più stravaganti leggende dei montanari.

    In una notte d’estate, dopo un temporale di violenza inaudita, l’intera popolazione delle campagne lì intorno fu destata dalla fuga impetuosa degli squatter, provocata da qualcosa di più concreto di una pura illusione.

    Folle sconvolte di montanari raccontarono urlando e piangendo che un orrore senza nome si era abbattuto su di loro, e nessuno dubitò della loro parola.

    Non lo avevano visto, ma da uno dei villaggi erano giunte grida strazianti dalle quali avevano compreso che la morte strisciante era arrivata.

    La mattina seguente, gruppi di cittadini e di poliziotti seguirono i montanari terrorizzati fino al luogo nel quale dicevano fosse discesa la morte.

    E la morte vi era davvero! Il terreno sottostante uno dei villaggi era franato in seguito allo scoppio di un fulmine, distruggendo parecchie delle casupole maleodoranti.

    Ma i danni alle cose apparivano insignificanti rispetto alla strage degli esseri umani: dei settantacinque abitanti del villaggio non ne rimaneva più alcuno.

    Il suolo dissestato era cosparso di sangue e di resti umani che testimoniavano in maniera fin troppo cruda lo strazio prodotto dalle zanne e dagli artigli del demone.

    Nessuna traccia visibile si allontanava tuttavia dal luogo della carneficina.

    Tutti concordarono nell’attribuire il massacro a una belva immonda, e nessuno osò rilanciare l’accusa che tal genere di morti misteriosi fosse frutto dei sordidi delitti tipici delle comunità degenerate.

    L’accusa fu riproposta soltanto quando si appurò che circa venticinque dei settantacinque presenti abitanti del villaggio non figuravano nel conto dei cadaveri.

    Ma, anche in tal caso, l’ipotesi che cinquanta persone potessero essere state uccise in modo così orribile da un numero di assassini inferiore a loro della metà, appariva poco plausibile.

    C’era solo un fatto incontestabile: in una notte d’estate, un fulmine era piombato dal cielo e aveva lasciato un intero villaggio senza vita, disseminato di cadaveri straziati, storpiati e dilaniati.

    Benché il villaggio distasse cinque chilometri dall’antica residenza dei Martense, la gente delle montagne aveva subito associato l’inspiegabile orrore alla dimora stregata.

    Gli inquirenti erano invece piuttosto scettici, e soltanto per scrupolo avevano perquisito il palazzo, escludendolo poi dalle indagini, visto che l’edificio era palesemente disabitato e abbandonato.

    Alcuni abitanti dei villaggi e della campagna circostante avevano invece perlustrato di loro iniziativa il luogo con cura meticolosa.

    Misero l’abitazione sottosopra, scandagliarono gli stagni e i ruscelli, abbatterono i cespugli e rastrellarono le foreste vicine.

    Ma fu tutto inutile: la morte era giunta e se n’era andata senza traccia, lasciando dietro di sé nient’altro che la distruzione.

    Al secondo giorno di ricerche, la cosa finì sui giornali, e il monte delle Tempeste venne invaso dagli inviati.

    Questi descrissero ogni cosa senza risparmiare particolari, e raccolsero molte interviste per illustrare i retroscena di quell’orrore, così come venivano tramandati dalle vecchie del luogo.

    Da esperto di fatti orrendi e straordinari, fui dapprima scarsamente stimolato da quei resoconti, ma la settimana successiva mi parve di scorgere un’atmosfera inquietante che aleggiava intorno a quei fatti.

    Sicché, il 5 agosto 1921, presi una stanza nell’albergo di Lefferts Corners, il villaggio più vicino al monte delle Tempeste, affollato dai giornalisti e quartier generale degli uomini impegnati nelle ricerche.

    Dopo tre settimane, la presenza dei cronisti cominciò a diradarsi, lasciandomi libero di dare inizio alla mia terribile esplorazione, basata su un’inchiesta e una serie di sopralluoghi che frattanto avevo condotto personalmente.

    Così, in quella notte estiva, mentre i tuoni rombavano distanti, fermai la piccola auto e, insieme a due compagni armati, mi inerpicai a piedi su per le pendici del monte delle Tempeste, risalendo a fatica l’ultimo tratto di terreno irto di tumuli.

    Munito di torcia elettrica, ne proiettai il fascio luminoso sulle grigie muraglie spettrali che cominciavano a intravedersi tra le querce gigantesche.

    In quella livida solitudine notturna, e nella luce incerta, la massiccia e compatta struttura svelava oscure avvisaglie di terrore che la luce diurna non sapeva rivelare.

    Non esitai, perché ero risoluto a sperimentare una mia idea.

    Ero convinto che il tuono inducesse quel demone letale ad uscire da un suo spaventoso nascondiglio, ed ero fermamente intenzionato a vederlo, fosse esso una solida entità diabolica o una fumosa pestilenza.

    Avevo già perlustrato a fondo il rudere, e sapevo come attuare il mio piano.

    La vecchia camera di Jan Martense sarebbe stata la sede della nostra veglia: un’intima percezione mi diceva che l’appartamento di quell’antica vittima, il cui assassinio veniva celebrato ancora dalle leggende locali, era il luogo adatto per noi.

    La camera, che misurava circa sette metri per lato, era invasa come le altre da vecchio ciarpame, residuo della mobilia di un tempo.

    Era al secondo piano, nell’angolo sudorientale del castello, ed aveva un’enorme finestra che affacciava a levante, ed un’altra molto più stretta prospiciente il meridione, entrambe sprovviste di vetri e di scuri.

    Dirimpetto alla finestra grande vi era un gigantesco camino olandese con piastrelle bibliche raffiguranti la parabola del figliuol prodigo.

    Di fronte alla finestra stretta, vi era invece uno spazioso letto incassato nel muro.

    Mentre il fragore dei tuoni, in parte attutito dai fitti alberi, si faceva più intenso, presi ad attuare i particolari del mio piano.

    Innanzitutto fissai al davanzale della finestra più grande tre scale di corda che avevo portato con me.

    Le avevo già provate, e sapevo che raggiungevano una superficie erbosa che faceva al caso nostro.

    Poi, tutti e tre insieme, trascinammo da un’altra stanza l’ampio telaio di un letto a quattro colonne e lo sistemammo lateralmente alla finestra.

    Quindi lo coprimmo di fronde d’abete, sulle quali ci adagiammo estraendo le automatiche.

    Mentre due di noi riposavano, il terzo avrebbe fatto la guardia.

    Da qualunque direzione fosse giunto il demone, ci eravamo assicurati una possibilità di fuga.

    Se fosse venuto dall’interno della casa, avremmo usato le scale di corda alla finestra; se invece fosse giunto dall’esterno, allora avremmo preso la via della porta e i gradini.

    A giudicare dai precedenti, non credevamo che, se le cose si fossero messe al peggio, ci avrebbe inseguito a lungo.

    Il mio turno di guardia iniziò a mezzanotte ma, verso l’una, malgrado l’aria sinistra della casa, le finestre spalancate e l’approssimarsi dei tuoni e dei fulmini, cominciai ad avvertire una curiosa sonnolenza.

    Mi trovavo in mezzo ai miei due compagni, George Bennett rivolto verso la finestra e William Tobey verso il caminetto.

    Bennett si era addormentato, colto evidentemente dal medesimo anomalo torpore che appannava la mia mente, sicché scelsi Tobey per il successivo turno di sorveglianza; ma anche lui reclinava di quando in quando la testa sonnecchiando.

    Durante la mia ora di veglia avevo fissato il camino con un’intensità che giudicai io stesso molto strana.

    I tuoni intanto si intensificavano e, probabilmente, il loro fragore dovette molestare i miei sogni perché, nel breve tempo in cui dormii, ebbi visioni apocalittiche.

    Ad un certo punto, quasi mi svegliai, forse perché, nell’inquietudine, il compagno addormentato rivolto alla finestra mi aveva gettato un braccio sul petto.

    L’urto mi scosse dal sonno profondo in cui ero immerso, ma non mi destai completamente, così da vedere se Tobey stesse di sentinella, ma avvertii una fitta d’ansia.

    Mai, prima d’allora, la presenza del male mi aveva oppresso con tanta chiarezza.

    Poi dovetti nuovamente cadere preda del sonno, giacché la mia mente emerse da un caos fantasmagorico quando la notte si riempì delle grida più raccapriccianti che avessi mai udito, tali da soverchiare in orrore ogni mia precedente esperienza o immaginazione.

    In quelle urla l’essenza più intima e profonda della paura e dell’angoscia umana tendeva disperatamente e follemente a raggiungere le nere porte dell’oblio.

    Riaprii la mente per trovarmi nella follia e con la sensazione di una beffa demoniaca mentre, scivolando sempre più gilungo scenari inconcepibili, un’angoscia tremenda e cristallina lampeggiava fra visioni d’incubo.

    Eravamo al buio fitto ma, dallo spazio vuoto alla mia destra, intuii che Tobey se n’era andato, e Iddio soltanto sapeva dove.

    Sul torace sentivo invece ancora il peso del braccio del dormiente alla mia sinistra.

    Giunse poi la folgore devastante che scosse l’intera montagna, rischiarò i più cupi recessi dell’antico bosco e spaccò in due il patriarca di quegli alberi nodosi.

    Al balenio demoniaco del mostruoso globo di fuoco il mio compagno addormentato si scosse bruscamente, mentre il bagliore che si irradiava dalla finestra rivelò un’ombra apparsa sulla canna fumaria del camino, dal quale non avevo mai distolto lo sguardo.

    Perché io sia vivo, e non sia impazzito, è un prodigio che non so spiegare.

    Visto che l’ombra sul camino non apparteneva a George Bennett, né a qualsivoglia creatura umana, bensì ad una anomalia blasfema emersa dai crateri più profondi degli abissi infernali.

    Un innominabile e deforme abominio che la mente umana non può accettare e la penna non sa descrivere.

    Un istante dopo mi ritrovai da solo nella dimora maledetta, balbettante e scosso dai brividi.

    George Bennett e William Tobey erano scomparsi senza lasciare traccia, neppure di lotta.

    Non se ne seppe mai più nulla.

    2.

    Un viandante nella tempesta Dopo quella orribile esperienza nella casa circondata dai boschi, rimasi per giorni chiuso in camera nell’albergo di Lefferts Corners, prostrato dalla tensione nervosa.

    Non ricordo in che modo riuscii a raggiungere l’auto, a metterla in moto e a far ritorno inosservato al villaggio.

    Di tutto ciò non ho più memoria.

    Mi rimane soltanto una vaga impressione di alberi titanici dai rami minacciosi, di cupi rumori di tuono, e di ombre infernali sui bassi tumuli che punteggiano la regione.

    E, mentre rabbrividivo e meditavo su quell’ombra, mi resi conto di esser giunto a intravvedere uno dei supremi orrori della Terra.

    Una cosa venuta dall’ignoto, una delle minacce senza nome delle quali talvolta udiamo il fioco stridore sui confini più remoti dello spazio; solo la limitatezza della nostra visuale ci conferisce una misericordiosa immunità nei loro confronti.

    Non osavo neppure analizzare o tentare di identificare l’ombra che avevo visto.

    Quella notte, qualcosa si era frapposto tra me e la finestra e, al solo pensiero di quel qualcosa, tremavo ogni volta che non riuscivo a respingere l’impulso di pormi delle domande.

    Se solo avesse ringhiato, o latrato, o riso istericamente, almeno ciò ne avrebbe attenuato l’abissale estraneità.

    E invece era rimasto in totale silenzio.

    Mi aveva poggiato un pesante braccio, o forse una zampa, sul petto… La sua natura era dunque organica, o un tempo doveva esserlo stata… Jan Martense, del quale avevamo profanato la camera, era sepolto nel cimitero vicino alla villa… Dovevo trovare Bennett e Tobey, se pur erano ancora vivi… Perché aveva catturato loro, lasciando me per ultimo? Il sonno mi opprime in modo insostenibile, i sogni sono orrendi… In breve mi resi conto che, se non avessi raccontato la mia storia a qualcuno, sarei impazzito senza rimedio.

    Avevo già deciso di non abbandonare la ricerca della paura in agguato perché, nella mia sconsiderata ignoranza, ritenevo che l’incertezza fosse peggiore della verità, per quanto terribile potesse dimostrarsi.

    Stabilii la condotta migliore.

    Decisi chi mettere a parte delle mie confidenze e in che modo tentar di catturare quella cosa che aveva dissolto nel nulla due uomini e aveva proiettato la sua ombra d’incubo sul camìno.

    A Lefferts Corners avevo fatto conoscenza con diversi giornalisti dimostratisi assai cordiali.

    Un certo numero di essi erano rimasti sul posto per raccogliere gli ultimi echi sollevati dalla tragedia.

    Tra questi, decisi di scegliermi un collaboratore e, pensandoci, decisi per un certo Arthur Munroe: un uomo magro e bruno, sui trentacinque, che per cultura, gusti, intelligenza e carattere, sembrava libero da idee ed esperienze convenzionali.

    Un pomeriggio dei primi di settembre, Arthur Munroe ascoltò il mio racconto.

    Vidi subito che era attento e interessato a quanto gli stavo riferendo; quando ebbi concluso, analizzò la cosa con acume e capacità di giudizio.

    Il suo consiglio fu molto assennato: mi raccomandò di rimandare ogni operazione nella dimora di Martense fino a quando non avessimo raccolto maggiori notizie su quel luogo e la sua storia.

    Su sua iniziativa, rastrellammo la campagna lì intorno in cerca di informazioni sulla famiglia Martense, e scoprimmo così un uomo in possesso di un antichissimo diario dal contenuto illuminante.

    Parlammo anche a lungo con i montanari che la paura del mostro non aveva ancora spinto altrove.

    Stabilimmo quindi di compiere una esplorazione completa e definitiva dei luoghi associati alle diverse tragedie che popolavano le leggende degli squatter, dopodiché avremmo affrontato il compito finale, cioè l’esame della vecchia dimora alla luce delle informazioni acquisite.

    Inzialmente, i risultati non furono significativi, ma confrontandoli per trarne un quadro completo, ci accorgemmo di un fatto: il numero delle morti orribili era di gran lunga maggiore nelle zone relativamente vicine al castello maledetto o ad esso collegate da lingue di foresta intricata.

    è pur vero che vi erano delle eccezioni: difatti, la tragedia che aveva richiamato l’attenzione del mondo si era verificata in uno spazio privo di alberi, distante sia dal maniero che dalla foresta.

    Sulla natura e l’aspetto della paura in agguato non riuscimmo a cavare granché dai miseri abitanti delle capanne, troppo spaventati per essere coerenti.

    Di volta in volta, lo definivano drago e gigante, demone del tuono e pipistrello, avvoltoio e albero che cammina.

    Ci parve di capire comunque che si trattava di un organismo vivente, altamente suscettibile alle scariche elettriche dei temporali; e, benché taluni racconti lo dicessero dotato di ali, la sua avversione per gli spazi aperti rendeva più probabile l’ipotesi di una creatura terrestre.

    L’unico fatto incompatibile con questa congettura era la rapiù dità con la quale il mostro doveva essersi spostato per commettere tutti i misfatti attribuitigli.

    Grazie alle nostre indagini, conoscemmo meglio gli squatter, e li trovammo curiosamente simpatici sotto diversi aspetti: erano in fondo creature semplici che, per l’isolamento e l’avversa ereditarietà, avevano disceso di qualche grado la scala evolutiva.

    Nutrivano un certo timore verso gli estranei ma, a poco a poco, si abituarono a noi e, alla fine, ci furono di grande aiuto quando esplorammo i boschi e demolimmo ogni tramezzo della dimora nella nostra ricerca della paura in agguato.

    Chiedemmo loro di aiutarci a cercare Bennett e Tobey, e si dimostrarono molto dispiaciuti: ci avrebbero dato volentieri una mano, ma erano convinti che le due vittime che cercavamo fossero sparite completamente da questo mondo, così come i membri dispersi della loro comunità.

    Presto ci convincemmo che il numero delle persone scomparse o uccise era in realtà grandissimo, e che persino gli animali selvaggi erano stati sterminati; ci aspettavamo perciò con apprensione altre tragedie simili.

    A metà di ottobre, ci rendemmo conto con sconcerto di non aver compiuto in realtà alcun progresso sostanziale.

    Il perdurare del bel tempo aveva impedito che si verificassero altre aggressioni demoniache, e la scrupolosa quanto vana accuratezza con la quale avevamo condotto le nostre ricerche all’interno della casa e nella campagna circostante, ci stava facendo tornare all’ipotesi che la paura in agguato fosse un’entità immateriale.

    Temevamo che il freddo avrebbe interrotto le nostre esplorazioni giacché tutti convenivano che il demone fosse generalmente inattivo durante l’inverno.

    Per questo la nostra ultima esplorazione diurna fu caratterizzata da un senso d’ansia misto a rassegnazione.

    Mèta della nostra indagine era il villaggio vlsitato dall’orrore, un gruppo di capanne lasciate deserte dagli squatter atterriti.

    Il villaggio fatto segno dal destino non aveva alcun nome, e da lungo tempo sorgeva in una gola priva di alberi ma riparata dalle due alture tra le quali si apriva, chiamate Cone Mountain e Maple Hill.

    Era tuttavia più vicino a quest’ultima: difatti, alcune delle abitazioni più misere non erano altro che tane ricavate sul suo fianco.

    Dal punto di vista geografico, era a circa tre chilometri a nord-ovest della base del monte delle Tempeste e a quasi cinque chilometri dal maniero racchiuso tra le querce.

    Nel tratto che separava quest’ultimo dal villaggio, per buoni tre chilometri si stendeva l’aperta campagna, pianeggiante ad eccezione di balze basse e sinuose come serpenti.

    La vegetazione era costituita da erba e sterpaglie disseminate qua e là.

    Considerando questa topografia, avevamo concluso che il demone poteva essere giunto solo dalla Cone Mountain, dove una boscosa propaggine meridionale correva a poca distanza dal contrafforte occidentale del monte delle Tempeste.

    Il misterioso cedimento del terreno lo attribuimmo poi ad una frana della Maple Hill, sul cui fianco si trovava un alto e solitario albero dal tronco squarciato sul quale si era abbattuta la folgore che aveva richiamato il demone.

    Quando, per la ventesima volta o forse più, io e Arthur Munroe frugammo minuziosamente ogni centimetro del villaggio devastato fummo colti da uno scoramento frammisto a nuove e indistinte paure.

    Ci pareva del tutto innaturale, anche in un momento in cui sembravano all’ordine del giorno cose terrificanti e innaturali, il fatto di trovarci dinanzi a uno scenario così desolatamente privo di indizi, anche dopo avvenimenti di tale catastrofica portata.

    Ci muovevamo sotto un cielo di piombo che si faceva sempre più cupo, animati da quella tragica e cieca premura che nasce dalla necessità di agire combinata al senso dell’inutilità.

    Con scrupolo estremo, rastrellammo tutta la zona: entrammo nuovamente in tutte le baracche, cercammo eventuali cadaveri in ogni possibile rifugio sulle pendici del colle, setacciammo ogni metro di impervio terreno adiacente al pendio in cerca di tane e caverne: tutto invano.

    Eppure, come ho già detto, nuove e indistinte paure incombevano minacciose su di noi, come se giganteschi grifoni dalle ali di pipistrello si affacciassero a spiarci invisibili, dalla cima delle montagne, beffandosi di noi con gli occhi di creature cresciute nell’inferno, e consapevoli degli abissi che ci dividono dall’ignoto.

    Mentre il pomeriggio avanzava, divenne sempre più difficile vedere nell’oscurità e, d’improvviso, udimmo il rombo del tuono annunziare il temporale che si addensava sulla vetta del monte delle Tempeste.

    Naturalmente, trovandoci in quel luogo, il rumore produsse in noi una certa eccitazione, che certo sarebbe stata ben più intensa se fosse già calata la notte.

    Sperammo, senza farci molte illusioni, che il temporale durasse fin dopo il tramonto, e con tale idea sospendemmo l’infruttuosa ricerca sul pendio del colle e ci dirigemmo verso il più vicino villaggio per chiedere agli squatter di aiutarci nelle indagini.

    Per quanto intimoriti, alcuni tra gli uomini più giovani, fidandosi della nostra guida e protezione, non ci rifiutarono aiuto.

    Ci eravamo appena messi in cammino, quando fummo sommersi da una cascata accecante di pioggia torrenziale che ci costrinse a trovare riparo.

    La cupa, quasi notturna oscurità del cielo ci faceva procedere alla cieca ma, grazie ai lampi frequenti e alla nostra ormai perfetta conoscenza del villaggio, raggiungemmo in breve la capanna meno malridotta: un ammasso eterogeneo di tronchi e assi la cui porta ancora esistente e la minuscola finestra affacciavano entrambe sulla Maple Hill.

    Sbarrammo la porta dietro di noi contro la furia del vento e della pioggia, e sistemammo le rozze imposte della finestrella che avevamo localizzato nelle precedenti ricerche.

    Non era allegro starsene lì dentro, seduti su casse traballanti al buio pesto, ma accendemmo le pipe e, di quando in quando, rischiaravamo la baracca con le lampade tascabili.

    A tratti, dalle fessure della parete balenavano i guizzi luminosi dei fulmini, che apparivano particolarmente vividi tanto era cupo quel pomeriggio.

    Rabbrividendo, rammentai una veglia simile sul monte delle Tempeste in una altrettanto spaventosa notte temporalesca.

    Mi tornò in mente la domanda che mi perseguitava da quando avevo incontrato l’orrore, e mi chiesi perché il demone, avvicinatosi a noi tre dalla finestra o dall’interno della casa, avesse assalito i due uomini ai miei lati risparmiando proprio me che ero nel mezzo fino a quando il titanico globo di fuoco lo aveva spaventato inducendolo a fuggire.

    Perché non aveva afferrato le sue vittime secondo una successione logica? Da qualunque direzione fosse giunto, io avrei dovuto essere la sua seconda preda: perché dunque non mi aveva preso? Di qual genere di lunghi tentacoli si serviva? O aveva capito che io ero il capo e mi aveva lasciato per ultimo volendo riservarmi una sorte peggiore di quella toccata ai miei compagni? Mentre riflettevo, un fulmine terrificante, quasi fosse predisposto a sottolineare la mia inquietudine, si abbatté lì vicino, seguito subito dal fragore di una frana del terreno.

    Nel medesimo istante, gli ululati del vento inferociti aumentarono in un crescendo infernale.

    Eravamo certi che l’unico albero rimasto sulla Maple Hill fosse stato colpito nuovamente, e Munroe si alzò dalla cassa sulla quale era seduto e si recò alla finestrella per accertarsi dei danni.

    Non appena ebbe rimosso l’imposta, vento e pioggia irruppero nella casupola urlando tanto da assordarci.

    Non capii quel che Munroe aveva detto, e attesi che si sporgesse al di fuori per scrutare quel pandemonio della natura.

    Il vento a poco a poco cominciò a placarsi, e così pure l’inconsueta oscurità prese ad attenuarsi, annunziandoci che la tempesta stava per finire.

    Avevo sperato che proseguisse fino a sera per favorire la nostra ricerca, ma un furtivo raggio di sole penetrato da un foro del legno alle mie spalle mi disilluse al riguardo.

    Dissi a Munroe che sarebbe stato utile fare un po’ di luce nella baracca anche a costo di affrontare la pioggia, e così disserrai la rozza porta.

    Il terreno di fuori era un acquitrino di fango e pozzanghere, variegato da nuovi cumuli di terra prodotti dalla frana.

    Non scorgevo tuttavia nulla che potesse giustificare l’interesse del mio compagno, ancora silenziosamente proteso fuori dalla finestra.

    Mi accostai a lui e gli toccai una spalla, ma non si mosse.

    Allora, quasi scherzosamente, lo scrollai e lo girai verso di me: ed ecco che mi sentii avvolto dalle spine soffocanti di un orrore velenoso le cui radici affondavano nel buio del passato ancestrale e negli abissi insondati della notte che si cela oltre l’eternità.

    Perché Arthur Munroe era morto.

    E su ciò che restava della sua testa r¢sa e spolpata, non vi era più il volto.

    3.

    Il significato del bagliore rosso L’8 novembre 1921, in una notte spaventosa, munito di una lanterna che proiettava lugubri ombre, giunsi da solo alla tomba di Jan Martense, e cominciai a scavare con la furia di un folle.

    Mi ero organizzato sin dal pomeriggio perché avevo scorto l’aria incupirsi annunziando tempesta e, quando a sera la furia degli elementi era esplosa sulla vegetazione grottescamente ìntricata, ne ero stato immensamente lieto.

    La mia mente, certo, era stata sconvolta dagli eventi successivi al 5 di agosto: l’ombra demoniaca nella casa dei Martense, la tensione frustrata delle ricerche, e il fatto orribile che si era verificato nel villaggio in ottobre durante il temporale.

    Dopo quest’ultimo evento, avevo scavato la tomba per un uomo la cui morte non riuscivo a comprendere.

    E sapevo che neppure le autorità avrebbero saputo spiegarsela: per questo preferii far credere che Arthur Munroe avesse abbandonato la regione.

    La polizia lo cercò a lungo, senza ovviamente alcun risultato.

    Gli squatter, quelli sì, forse avrebbero capito: ma non volli rischiare di spaventarli ulteriormente.

    Quanto a me, mi pareva di essere diventato insensibile, di sicuro in seguito alla violenta emozione che il mio cervello aveva subito nella dimora dei Martense.

    Sicché, adesso, non pensavo ad altro che alla ricerca di un orrore che ormai aveva assunto per me proporzioni smisurate; una ricerca che la sorte di Arthur Munroe mi aveva convinto a proseguire nella massima segretezza e nella più completa solitudine.

    Lo stesso scenario che avevo sott’occhio durante lo scavo sarebbe bastato da solo a spezzare la resistenza nervosa di qualsiasi uomo normale.

    Lugubri alberi oscenamente antichi, enormi e contorti, mi scrutavano minacciosi dall’alto dei loro tronchi grotteschi, circondandomi come le colonne di un infernale tempio druidico.

    Attutivano il boato dei tuoni, smorzavano l’ululato del vento graffiante, e lasciavano filtrare solo scarsi rivoli di pioggia.

    Oltre i tronchi laceri si ergevano sullo sfondo, illuminati da fievoli lampi di luce che a stento passavano fra le fitte chiome, gli umidi blocchi di pietra ricoperti d’edera della dimora deserta; poco più avanti, si scorgeva il giardino olandese abbandonato, i cui sentieri erano contaminati da una vegetazione bianca e lussureggiante, fetida e r¢sa da funghi e muffe, che mai vedeva la luce del sole.

    Intorno a me c’era il camposanto, dove alberi deformi gettavano l’ombra dei loro rami contorti, e le radici frugavano sotto le lapidi sconsacrate succhiando il veleno da ciò che vi era sepolto.

    Di quando in quando, sotto il disgustoso manto di foglie putride che marcivano nel buio della foresta, distinguevo i sinistri contorni dei bassi tumuli di terra che butteravano quella regione sfregiata dalle folgori.

    Era stata la storia a condurmi a quella sepoltura dimenticata.

    La storia era infatti rimasta l’unico punto fermo, dopo che ogni altra cosa era sprofondata nell’orrore.

    Ero convinto ormai che la paura in agguato non fosse un’entità materiale, ma uno spettro dalle zampe di lupo che si manifestava con i fulmini di mezzanotte.

    Le molte tradizioni locali che avevo raccolto assieme ad Arthur Munroe, mi inducevano a credere che lo spettro appartenesse a Jan Martense, morto nel 1762.

    Per quel motivo mi trovavo lì a scavare come un folle nella sua tomba.

    L’imponente residenza era stata costruita nel 1670 da Gerritt Martense, un ricco mercante di New Amsterdam il quale, contrario alle trasformazioni verificatesi sotto il dominio britannico, aveva fatto erigere quella magnifica dimora in cima ad una solitaria vetta boscosa, attratto dalla solitudine e dal maestoso panorama.

    L’unico inconveniente che aveva deluso le sue aspettative era la frequenza con la quale quella vetta isolata era percorsa da terrificanti temporali.

    Nello scegliere il colle ove far costruire la villa, Gerritt Martense aveva erroneamente attribuito quelle furiose intemperanze della natura ad una bizzarria della stagione estiva; ma, col tempo, si era reso conto che era il luogo stesso ad essere particolarmente esposto alle folgori.

    E poiché i boati temporaleschi avevano effetto lacerante sul suo sistema nervoso, pensò bene di attrezzare un vano sotterraneo dove potersi rifugiare durante gli uragani più violenti.

    Dai discendenti di Gerritt Martense si sa ancor meno di lui; tutti furono allevati nell’odio per la civiltà inglese, e si tenevano lontano dai colonizzatori che invece avallavano la nuova politica.

    Condussero un’esistenza estremamente appartata e, a detta della gente, tale isolamento aveva fatto sì che non parlassero né comprendessero bene la lingua dei loro simili.

    All’aspetto si distinguevano per una peculiarità ereditaria: la diseguaglianza cromatica degli occhi, uno azzurro e l’altro castano.

    I contatti sociali si fecero sempre più radi, fino a costringerli a contrarre matrimonio con esponenti della numerosa classe servile che viveva nei paraggi della loro proprietà.

    Molti membri di quella prolifica stirpe, degenerati, si spostarono dall’altra parte della vallata mescolandosi alla popolazione ignorante che avrebbe dato origine ai miserabili squatter.

    Gli altri esponenti della famiglia rimasero invece morbosamente avvinghiati alla dimora avita, facendosi sempre più schivi e taciturni, e sviluppando una sorta di sensibilità nervosa alle frequenti tempeste.

    Di tutto ciò, il mondo esterno ebbe notizia grazie principalmente al giovane Jan Martense, che, spinto da naturale irrequietezza, si arruolò nell’esercito coloniale quando persino sul monte delle Tempeste si seppe del congresso di Albany (3).

    Jan fu il primo dei discendenti di Gerritt a vedere tanto del mondo, e quando nel 1760, dopo sei anni di vita militare, fece ritorno alla sua casa sperduta, fu odiato come un estraneo dal padre, dagli zii e dai fratelli, nonostante gli occhi di diverso colore ne facessero un vero Martense.

    Il giovane non condivideva più le stravaganze e i pregiudizi dei parenti, e i temporali di montagna non esercitavano più su di lui alcun effetto nefasto, come una volta.

    Anzi, quell’ambiente ormai lo deprimeva, e più di una volta confidò per lettera a un amico di Albany il suo desiderio di abbandonare la casa paterna.

    Nella primavera del 1763, Jonathan Gifford, l’amico di Jan residente ad Albany, si preoccupò per un prolungato silenzio del suo corrispondente; tanto più che sapeva delle condizioni e dei conflitti a casa Martense.

    Decise allora di far visita all’amico e, in groppa al suo cavallo, partì alla volta dei monti.

    Nel suo diario annotò che giunse al monte delle Tempeste il 20 settembre, trovando il castello in stato di drammatica decadenza.

    I cupi Martense dai bizzarri occhi, sudici e animaleschi al punto da disgustarlo, gli riferirono, metà a parole e metà a grugniti, che Jan era morto.

    Gli ripeterono più volte che il giovane era stato colpito da un fulmine l’autunno precedente, e aggiunsero che era sepolto nel giardino abbandonato.

    Mostrarono pure al visitatore la tomba, priva di lapide o altro segno distintivo.

    Qualcosa nei modi e nell’aspetto dei Martense destò in Gifford un senso di ripugnanza e di sospetto, per cui, la settimana dopo, tornò armato di pala e piccone per esaminare la fossa.

    Vi trovò ciò che aveva sospettato: un cranio sfondato ferocemente da colpi selvaggi.

    Rientrò ad Albany, e accusò i Martense dell’assassinio del congiunto.

    Non fu rinvenuta alcuna prova legale, ma la storia si diffuse subito nelle campagne, e da allora i Martense vennero evitati da tutti.

    Nessuno volle più avere a che fare con loro, e il remoto maniero fu schivato come un luogo maledetto.

    Riuscirono comunque a sopravvivere grazie ai raccolti delle loro terre, e le luci che si intravedevano dai colli distanti testimoniavano della loro esistenza.

    Di questi occasionali bagliori si ebbe segno fino al 1810, ma alla fine si diradarono considerevolmente.

    Intanto, la casa e il monte avevano dato origine a una lunga serie di leggende diaboliche.

    Il posto fu quindi evitato con determinazione ancora maggiore, come sede delle più cupe e terribili storie che la tradizione potesse offrire alle genti del luogo.

    Nessuno più andò a visitare la casa fino al 1816, quando l’ininterrotta assenza delle sporadiche luci fu notata dagli squatter.

    Una squadra di persone vi andò allora a investigare, e la trovò abbandonata e semidiroccata.

    L’assenza di resti umani nel castello suggerì che i padroni di casa anziché morti fossero invece partiti, cosa che doveva essere accaduta parecchi anni prima; inoltre, le molte rudimentali costruzioni aggiunte all’edificio dimostravano che, prima di emigrare, il clan dei Martense doveva essersi moltiplicato in maniera notevole.

    Il livello culturale, d’altra parte, doveva essere assai degenerato, come dimostravano il mobilio assai malridotto e l’argenteria sparsa un po’ dappertutto, chiaramente da lungo tempo in disuso già prima che i padroni partissero.

    Anche se i temuti Martense se ne erano andati, il terrore che la casa fosse abitata dagli spettri perdurava, accentuato dalle nuove e strane storie sorte tra i montanari.

    L’antica dimora rimase dunque abbandonata, temuta e idealmente legata alla vendetta dello spettro di Jan Martense.

    Ed era ancora lì la notte in cui scavai nella tomba di Jan.

    Ho già definita un’azione folle il mio lungo scavare in quella fossa, e tale era difatti sia per l’obiettivo che per il modo.

    Non tardai a dissotterrare la bara di Jan Martense contenente ormai soltanto polvere e salnitro ma nella mia ansia di esumare lo spettro, continuai a scavare, goffo e irrazionale, sotto al livello sul quale il feretro era poggiato.

    Solo Iddio sa cosa sperassi di trovare: sapevo solo che stavo scavando nella tomba di un uomo il cui fantasma vagava nella notte.

    è impossibile dire quale mostruosa profondità avessi raggiunto quando la pala, e subito dopo i miei piedi, aprirono un varco nel terreno sottostante.

    Il che, date le circostanze, fu una scoperta terribile: l’esistenza di una cavità sotterranea confermava infatti le mie peggiori teorìe.

    La breve caduta che seguì aveva fatto spegnere la lanterna: estrassi allora la lampada tascabile e illuminai la stretta galleria orizzontale che si stendeva indefinitamente diramandosi in entrambe le direzioni.

    La sua ampiezza era appena sufficiente perché un uomo vi si potesse infilare strisciando, e, pur sapendo che nessuna persona di buon senso avrebbe tentato una cosa simile in quel particolare momento, dimenticai pericolo, ragione e ripugnanza, spinto dall’ossessiva frenesia di stanare la paura in agguato.

    Scelsi la direzione che andava verso la casa dei Martense e incautamente mi infilai nello stretto budello.

    Contorcendomi, procedetti rapido e alla cieca, accendendo di tanto in tanto la torcia elettrica che tenevo dritta dinanzi a me.

    Quali parole possono descrivere lo spettacolo di un uomo perduto nelle sterminate e abissali viscere della terra? Quale linguaggio può narrare il suo contorcersi, respirare a fatica, scavare con le unghie per avanzare attraverso recessi di tenebra, immemore, senza la minima idea del tempo, della direzione, del rischio e dello scopo preciso del suo incedere? C’è qualcosa di orribile in quel che ho fatto, eppure è proprio quanto ho fatto.

    E durò tanto a lungo che la mia vita parve dissolversi come un remoto ricordo, e divenni tutt’uno con le talpe e i vermi dei sotterranei.

    Fu solo per caso che, dopo interminabili contorcimenti, accendendo la torcia elettrica, illuminai il cunicolo di argilla raggrumata che, curvandosi, si dirigeva verso l’alto.

    Lo seguii per un lungo tratto con la torcia accesa, la cui luce si faceva sempre più fioca, quando, improvvisamente, il livello del terreno prese a salire rapidamente, e fui costretto a mutare il mio procedere.

    Alzai lo sguardo, e in lontananza vidi con sorpresa due riflessi demoniaci causati dalla torcia prossima ad esaurirsi.

    Due riflessi che diffondevano una luminosità malvagia e inconfondibile, che evocò in me un ricordo confuso e sconvolgente.

    Mi fermai di scatto e rimasi fermo, svuotato anche della presenza di spirito necessaria per farmi indietreggiare.

    Gli occhi si avvicinarono, ma dell’essere a cui essi appartenevano riuscii a distinguere soltanto un artiglio.

    Un artiglio spaventoso! Ad un tratto, lontana davanti a me, giunse l’eco attutita di uno scoppio che riconobbi: era il tuono che si abbatteva sulla montagna, scaricandosi con furia selvaggia.

    Capii allora che dovevo aver risalito il cunicolo per un lungo tratto, avvicinandomi parecchio alla superficie.

    Il tuono rombò ancora, pur attutito nel suo fragore, e gli occhi mi fissarono con vacua malignità.

    Grazie a Dio non compresi ciò che avevo davanti, altrimenti ne sarei morto.

    E fu il tuono a salvarmi, proprio il tuono che aveva evocato la creatura.

    Dopo una raccapricciante attesa, dall’invisibile cielo esterno esplose uno di quei frequenti fulmini montani di cui avevo spesso notato gli effetti, squarci nel terreno rimosso e rocce fuse di svariate dimensioni.

    Con la furia di un titano la folgore lacerò il suolo sovrastante quel pozzo dannato, accecandomi e assordandomi, senza però farmi perdere i sensi.

    Nel caos del terriccio smosso e franante, annaspai in cerca di un appiglio, e continuai a dimenarmi finché la pioggia, battendomi sulla testa, ridestò la mia mente intorpidita.

    Improvvisamente lucido, compresi di essere riemerso in superficie in un punto che conoscevo: una radura sul fianco sudoccidentale della montagna.

    Il continuo balenio dei fulmini rischiarava il terreno dissestato, e scorsi i resti del curioso poggio che si allungava dalla parte alta e boscosa della montagna, ma nulla, in quel caos, mostrava il punto dal quale ero affiorato risalendo dall’infernale catacomba.

    Un caos di pari violenza mi sconvolgeva il cervello e, quando in lontananza il paesaggio fu acceso da un rosso bagliore proveniente da Sud, a stento mi resi conto dell’orrore che avevo vissuto.

    Due giorni dopo, gli squatter mi spiegarono il significato di quel rosso bagliore, ed io provai un terrore ancora più intenso di quello che mi aveva stretto nel profondo della cupa tana alla vista degli occhi luccicanti e dell’artiglio: più intenso, sì, per le agghiaccianti conseguenze che implicava! In un villaggio ad oltre trenta chilometri, un orrore senza nome aveva fatto seguito allo scoppio di fulmine che mi aveva riportato in superficie, e una cosa mostruosa era calata da un albero piombando in una capanna attraverso il tetto sfondato.

    All’interno, l’essere aveva compiuto un atto esecrabile, ma i miseri baraccati, in preda al terrore, erano riusciti a dar fuoco all’abitazione prima che il mostro ne potesse fuggire.

    Proprio mentre compiva il suo atto, a trenta chilometri di distanza la terra era franata sull’essere dotato di occhi rossi e di un artiglio, apparsomi nel cunicolo.

    4.

    L’orrore negli occhi Non può esservi nulla di normale nella mente di un uomo che, pur conoscendo come me gli orrori del monte delle Tempeste, si ostini ugualmente a cercare da solo la paura che vi si cela in agguato.

    La certezza che almeno due di quelle incarnazioni dell’incubo erano state distrutte, costituiva un appiglio per la saluta fisica e mentale in quell’Acheronte popolato di demoni, e proseguii nella mia ricerca con zelo ancora maggiore, anche quando gli eventi e le rivelazioni si fecero ancor più mostruosi.

    Quando, due giorni dopo la mia orrenda avventura nella cripta abitata dall’essere con gli occhi e l’artiglio, appresi che una creatura simile si era manifestata ad una distanza di trenta chilometri nello stesso istante in cui quegli occhi si erano posati su di me, caddi in preda a un delirio di paura.

    Ma era una paura così mescolata al fascino dell’ignoto da dar luogo a una sensazione per me non priva di un certo tenebroso godimento.

    Talvolta, quando si è preda degli spasimi di un incubo, e forze invisibili ci trasportano in volo sui tetti di strane città morte, verso il sogghignante abisso di Nis, è un sollievo e persino un piacere urlare come folli e lanciarsi volontariamente nel gorgo spaventoso del destino onirico, precipitando nel baratro senza fine che ci si spalanca dinanzi.

    E così fu per me con l’incubo ad occhi aperti del monte delle Tempeste.

    La scoperta che i mostri che avevano infestato quella zona erano stati almeno due suscitò in me un’ansia folle di penetrare nel suolo di quella regione maledetta e di dissotterrarne con le mie stesse mani la morte che occhieggiava da ogni centimetro di quel terreno velenoso.

    Non appena mi fu possibile, visitai di nuovo la tomba di Jan Martense, e invano scavai lì dove avevo già scavato prima.

    Una vasta frana aveva cancellato ogni traccia della galleria sotterranea, mentre la pioggia aveva riversato tanto fango nello scavo da impedirmi di accertare a quale profondità fossi giunto qualche giorno prima.

    Affrontai anche un faticoso viaggio fino al distante villaggio dove la creatura seminatrice di morte era stata bruciata viva, e lì fui ripagato soltanto in misura minima della fatica alla quale mi ero sottoposto.

    Tra le ceneri della capanna trovai parecchie ossa, ma nessuna pareva appartenere al mostro.

    Gli squatter riferirono che la creatura aveva fatto una sola vittima, cosa che non ritenni esatta giacché, accanto al cranio integro di un essere umano, vi era un altro frammento osseo che certamente doveva essere appartenuto al teschio d’un uomo.

    Il mostro era stato visto di sfuggita mentre piombava rapido sulla baracca, ma nessuno ne sapeva descrivere l’aspetto: i testimoni dicevano semplicemente che si trattava di un diavolo.

    Esaminai il grosso albero sul quale si era acquattato, ma non trovai alcun segno particolare.

    Cercai allora qualche traccia nella buia foresta, ma non riuscii a sopportare la vista dei tronchi deformi, immensi e delle enormi radici simili a serpenti che si torcevano mostruosamente prima di affondare nel terreno.

    La mia mossa successiva fu un nuovo esame, condotto stavolta con attenzione microscopica, del villaggio abbandonato dove la morte aveva colpito con maggior furia, e dove Arthur Munroe aveva visto qualcosa che non era vissuto abbastanza da poter descrivere.

    Le mie ricerche precedenti erano state meticolose, ma ora disponevo di nuovi dati da verificare, giacché l’orribile catabasi nella tomba di Jan Martense mi aveva convinto del fatto che almeno una delle mostruosità che si aggiravano nella regione era rappresentata da una creatura sotterranea.

    In quella occasione era il 14 di novembre le mie ricerche si accentrarono principalmente sulle pendici di Cone Mountain e Maple Hill, nel tratto che sovrastava lo sciagurato villaggio.

    Studiai in particolare l’area nella quale il terreno si era staccato dalla regione franosa sulla Maple Hill.

    Non trovai nulla di particolare in tutto un pomeriggio di ricerche, e il crepuscolo mi colse mentre ero su quell’ultimo colle, lo sguardo volto al villaggio sottostante e, oltre la vallata, al monte delle Tempeste.

    Dopo un magnifico tramonto, una luna quasi piena si era alzata in cielo stendendo il suo manto argentato sulla pianura, sui monti lontani e sulle bizzarre collinette che sorgevano qua e là.

    Davanti agli occhi avevo un sereno panorama d’Arcadia: ma, sapendo di ciò che vi si celava, fui travolto da un’ondata d’odio.

    Odiai la luna beffarda, l’ipocrita pianura, i monti avvelenati e le onnipresenti, inquietanti gobbe.

    Tutto mi appariva contaminato da un morbo ripugnante e da osceni connubi con abiette potenze occulte.

    Poi, mentre contemplavo assorto il paesaggio lunare, il mio occhio fu attratto da qualcosa di singolare nel carattere e nella disposizione di un particolare elemento topografico della zona.

    Pur essendo privo di cognizioni geologiche, ero stato colpito fin dal primo istante dall’abbondanza di tumuli terrosi e basse collinette che caratterizzavano quella regione.

    Avevo notato la loro fitta presenza attorno al monte delle Tempeste, osservando che erano meno numerosi in pianura, mentre si infoltivano presso la vetta: lì vicino, evidentemente, la glaciazione preistorica aveva trovato una resistenza più debole ai suoi fantastici e bizzarri capricci.

    Ora, al chiarore della luna bassa che gettava lunghe ombre misteriose, mi accorsi della peculiare relazione che le linee e i punti di quel sistema di basse collinette avevano con la cima del monte delle Tempeste.

    Quella cima sembrava costituire un centro dal quale le linee o le file di punti si irradiavano come una ragnatela secondo tracciati indefiniti e irregolari: quasi che la malefica dimora dei Martense avesse proteso dei visibili tentacoli di terrore.

    L’idea di simili tentacoli mi diede un brivido inatteso, e mi soffermai ad analizzare le ragioni per cui credevo che quelle gobbe fossero fenomeni glaciali.

    Ma, quanto più riflettevo, tanto più quella conclusione mi pareva impensabile, ed alla mia mente aperta si affacciavano grottesche ed orribili analogie basate su ciò che vedevo in superficie e la mia esperienza nel sottosuolo.

    Prima ancora di rendermene conto, cominciai a pronunciare frasi sconnesse e deliranti: “Mio Dio! Tumuli di terra su gallerie come quelle delle talpe… Quel dannato monte ne deve essere crivellato… Quante… Quella notte nella vecchia casa… presero Bennett e Tobey per primi… perché ci circondavano dai lati…”.

    Mi misi allora a scavare nel tumulo più vicino.

    Scavai in preda al delirio, freneticamente, scosso dai brividi ma quasi esultando.

    Scavai e, alla fine, esplosi in un urlo altissimo dettato dall’emozione incontrollata, quando mi trovai dinanzi a una stretta galleria, una vera e propria tana, identica a quella attraverso la quale avevo strisciato in quella notte demoniaca.

    Dopodiché, ricordo, mi lanciai in una corsa spaventosa, la vanga ancora in mano, e attraversai i prati rischiarati dalla luna e butterati dai cumuli, le profondità tenebrose della foresta e le pendici dei colli, saltando, urlando, ansimando, diretto alla dimora diabolica dei Martense.

    Lì, rammento di aver scavato follemente nella cantina invasa dai rovi, per trovare il nucleo, il cuore, di quel malefico intrico di tumuli.

    E rammento il mio riso sfrenato quando, alla fine, scoprii la via d’accesso: un buco alla base del vecchio camino, dove le fitte sterpaglie proiettavano ombre grottesche alla luce dell’unica candela che per caso avevo con me.

    Ignoravo cos’altro si nascondesse in quell’alveare d’inferno, attendendovi acquattata il richiamo del tuono.

    Due di quelle mostruosità erano state uccise, e forse tutto era finito.

    Ma restava in me l’ansia bruciante di raggiungere il cuore segreto di quell’orrore, che ancor più di prima giudicavo definito, materiale e organico.

    Mi chiesi titubante se fosse il caso di esplorare subito il passaggio, da solo, oppure se fosse meglio radunare una squadra di squatter per aiutarmi nella perlustrazione.

    Mentre riflettevo, un’improvvisa raffica di vento dall’esterno spense la candela e piombai nell’oscurità più assoluta.

    La luna non risplendeva più dai fori e dalle fessure sopra di me e, con un profondo senso di allarme, udii il sinistro e fatale rombo del tuono che si avvicinava.

    Un turbine di idee spaventose mi sconvolse il cervello, e arretrai vacillando verso l’angolo più lontano della cantina, senza distogliere lo sguardo dall’orrida breccia alla base della canna fumaria.

    Quando il bagliore dei primi lampi cominciò a filtrare attraverso le chiome degli alberi e le crepe del soffitto, m’apparvero i mattoni sgretolati e le erbacce velenose che infestavano il sotterraneo.

    Ero consumato da un misto di terrore e di curiosità.

    Quale entità avrebbe evocato il temporale? E c’era poi ancora qualcosa da evocare? Guidato dai lampi, mi acquattai dietro un fitto groviglio di sterpi, dove potevo vedere l’apertura senza essere visto.

    Se il Cielo è misericordioso, un giorno vorrà cancellare dalla mia memoria ciò che vidi, e mi lascerà vivere in pace gli ultimi anni che ancora mi restano.

    Oggi il sonno notturno mi è negato e, quando tuona, sono costretto a stordirmi con i narcotici.

    L’orrore giunse improvviso e inatteso.

    Un tramestio diabolico, simile a un’orda di topi enormi, uscì fuori da baratri remoti e incancellabili.

    Vi fu poi un ansare infernale, un grugnire di bruti, e dalla breccia sotto il focolare scaturì un’ondata di esseri abominevoli, un disgustoso fiume notturno di vita putrescente, un lurido flutto di materia corrotta, generata dalla tenebra, più orrenda dei più oscuri incubi della follia e della perversione.

    Ribollente, fremente, gonfia e gorgogliante come bava di rettile, la fiumana si dilatò fino a emergere dalla breccia che si schiudeva, spargendosi nel sotterraneo, come un contagio, e rifluì dalla cantina verso ogni punto d’uscita.

    Si disperse poi nella notte, puntando verso la foresta maledetta immersa nelle tenebre, a seminare paura, follia e morte! Sa Iddio quanti fossero… migliaia.

    Vederli correre al chiarore intermittente delle folgori era raccapricciante.

    Quando si ridussero di numero sì da poter essere distinti come singoli organismi, mi resi conto che erano nani deformi e pelosi come scimmie o diavoli, caricature mostruose dei primati.

    Il loro silenzio era spaventoso, e a stento udii uno strido quando uno degli ultimi si volse indietro e, con l’abilità di chi è da lungo avvezzo a simili cose, saltò addosso a un compagno più debole e lo sbranò per divorarlo.

    Gli altri si gettarono sugli avanzi della carcassa, ingozzandone i resti con furiosa avidità.

    Allora, pur intontito dall’orrore e il disgusto, la mia morbosa curiosità ebbe la meglio: non appena l’ultima di quelle mostruosità fu uscita da quel mondo sommerso di incubi, estrassi l’automatica e le sparai, coperto dal rombo del tuono.

    Ombre urlanti, percorse da una rossa follia vischiosa, si davano la caccia lungo infiniti corridoi insanguinati sotto un cielo rosso di saette… Spettri senza forma e mutazioni caleidoscopiche di un’unica, demoniaca, scena fissa della memoria… Foreste di querce mostruose e rigonfie, con tortuose radici serpentiformi che suggevano umori velenosi da una terra corrotta, infestata da milioni di diavoli cannibali… lunghi tentacoli irraggiati dai nuclei sotterranei della perversione… folgori di follia sulle mura butterate d’edera maligna, portici demoniaci soffocati da funghi velenosi… Ringrazio il cielo per l’istinto che mi condusse, semincosciente, verso luoghi abitati da uomini, verso il pacifico villaggio che dormiva sotto le stelle silenti del cielo rasserenato.

    Nel giro di una settimana mi ero ripreso abbastanza da mandare qualcuno ad Albany per radunare una squadra di uomini.

    Un carico di dinamite fece saltare la casa dei Martense e l’intera vetta del monte delle Tempeste.

    Vennero livellati e sigillati tutti i tumuli d’ingresso alle tane, e tagliati gli alberi più rigonfi, la cui semplice esistenza costituiva di per sé un insulto alla ragione.

    Dopo che tutto ciò fu compiuto, riuscii a trovare un po’ di sonno: ma il vero riposo, quello non verrà mai fin quando la mia mente serberà il ricordo dell’innominabile segreto della paura in agguato.

    E questo pensiero mi tormenterà sempre, perché chi mai potrà dire che lo sterminio sia stato completo, e che in qualche parte del mondo non esista un fenomeno analogo? Chi, sapendo ciò che so io, potrà pensare alle caverne sconosciute della Terra senza provare un brivido di terrore al pensiero delle abominazioni che potrebbero vomitare? Non riesco a vedere un pozzo o un ingresso della metropolitana senza tremare… Perché i medici non mi danno qualcosa che mi faccia dormire, che riesca veramente a sedare il tumulto del mio cervello, quando tuona? Ciò che vidi al bagliore della torcia dopo aver sparato all’innominabile cosa isolata dalle altre, fu così semplice che mi occorse quasi un intero minuto prima di capire e sprofondare nel delirio.

    La creatura era disgustosa; un lercio essere biancastro simile a un gorilla, con la pelliccia macchiata e gialle zanne affilate.

    Era l’ultimo prodotto della degenerazione nei mammiferi, il terrificante risultato dell’isolamento, della riproduzione incestuosa e di un regime alimentare da cannibali, perseguito sopra e sotto terra.

    Era l’incarnazione del caos e della paura che si cela in agguato dietro la vita.

    Nell’attimo in cui stava morendo, la creatura aveva posato gli occhi su di me, e quegli occhi possedevano la medesima bizzarra peculiarità che caratterizzava gli altri due occhi che mi avevano fissato nel sottosuolo, risvegliando in me vaghi e nebulosi ricordi.

    Un occhio era azzurro, l’altro castano.

    Erano gli occhi disuguali dei Martense, secondo le antiche leggende.

    E, travolto da un’ondata suprema di muto orrore, compresi che cosa era stato della stirpe scomparsa, la terribile dinastia dei Martense perseguitata dai tuoni.





    cripta

    Edited by barionu - 29/4/2013, 14:12
     
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    TESTA DEL DRAGO


    YAI 'NG'NGAH,

    YOG-SOTHOTH

    H'EE-L'GEBF'AI THRODOG

    UAAAH!





    CODA DEL DRAGO


    OGTHROD AI'FGEB'L - EE'H

    YOG-SOTHOTH

    'NGAH'NG AI'Y

    ZHRO






    http://books.google.it/books?id=Ng3u2C2Tjn...ved=0CC4Q6AEwAA



    Coda del Drago e Testa del Drago hanno le stesse lettere , con


    UAAH !


    : è il perno dei due Draghi .

    lo identifico nell' imperativo , tziwwuy , del verbo vivere , licheot ,, in binyan qal .

    VIVETE ! (C)HAYU !



    חֲיוּ






    Guardate :

    LO YAG SOTOT ALCHEMICO



    ouroborus


    www.larosenoire.it/index.php?page=l_azoto_degli_alchimisti



    Nessun dubbio che i mostri di Lovecraft abbiano un preciso riferimento Alchemico .


    Alcune tracce mi portano all' opra di Raimondo Lullo e a Tritemio .


    Sto cercando:

    http://originidellereligioni.forumfree.it/?t=62782268




    zio ot :B):

    Edited by barionu - 4/6/2013, 18:40
     
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